Favola. Autonomia a scuola?

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1. Introduzione

“Si sa con quale profitto le nazioni scrivano la propria storia. Lo stesso profitto lo trae anche l’individuo singolo che scriva la propria storia. Me-ti diceva: Che ognuno divenga il suo proprio storiografo, allora vivrà con maggiore cura e maggiori esigenze


– (Bertold Brecht, Me-ti. Libro delle svolte, Einaudi 1979, pag. 106

1.1 Autonomia, autonomie, lavoro autonomo, funzionalità …

L’Autonomia dell’allievo a scuola … Cosa significa, a cosa rimanda il concetto di Autonomia, quale é la sua reale consistenza e presenza didattica nella scuola?
Tale concetto é certamente interessante e ricco di scenari, ma qual’è la sua concreta e quotidiana utilizzazione sociale a scuola?
E’ del tutto salutare ricordare che, quando si argomenta di Autonomia, in primo luogo si tratta di sapere chi é il soggetto che ne parla e che uso ne fa. In secondo luogo sapere che collocazione si dà all’Autonomia: in poche parole si tratta di sapere per chi, per cosa e quando un allievo é autonomo.

Se c’è autonomia, non c’é dipendenza, vale la pena ricordare questa verità lapalissiana. Se c’é indipendenza, ciò significa che un’azione, un’esistenza, un processo produttivo, anche quand’esso é cognitivo, avviene fuori controllo … può divenire e dispiegarsi senza la presenza del docente, in autonomia, appunto.

Certamente, il concetto di autonomia riceve uno spazio ed un’attenzione crescenti, nella letteratura; e ciò sia che ci si riferisca all’Autonomia degli istituti o all’Autonomia degli allievi.

Come per altri concetti della volgata pedagogica moderna, il neo liberismo impone un vocabolario che, da preciso riferimento e paradigma economico e politico (Autonomia degli istituti) si allarga ed occupa spazi e discorsi pedagogici rivolti agli allievi. Incontriamo così altri lemmi, competenze, capitale umano, apprendimento permanente, individuo, differenziazione, società della conoscenza..
Un concetto del tutto ibrido: si può riferire alla gestione (finanziaria) di un istituto, quanto alla gestione di un allievo a scuola. Un concetto ibrido che appartiene a molti campi e discipline differenti.

Il neo liberismo ha un concetto del tutto economico della conoscenza.
Conoscenza quale “capitale umano”, risorsa da investire.
Tale economia (?) – il punto di domanda ci sta visto lo spreco energetico di risorse umane e materiali che il capitalismo comporta – tale economia neo liberista della conoscenza ha sviluppato il concetto di autonomia fra gli istituti come strumento di competizione e di produttività; sullo slancio dei suoi successi (si fa per dire) sociali ed economici, il neo liberismo in espansione stimola l’utilizzazione concettuale (egemonica), sociale ed individuale dell’autonomia nel campo dell’apprendimento, per la crescita degli allievi.
Considerata la conoscenza quale capitale umano, si avvale degli apprendimenti formali, degli apprendimenti informali e degli apprendimenti autonomi (tutte forme dell’apprendimento permanente).
In verità il concetto di Autonomia, nella società capitalista, é il Cavallo di Troia, la punta di diamante, della penetrazione del neo liberismo nella scuola.

L’Autonomia (degli istituti) é un dei principali vettori di deregolamentazione e delocalizzazione delle scuole, un concetto ancorato fortemente nella politica scolastica e quindi nella gestione della vita quotidiana degli istituti scolastici. L’Autonomia (degli allievi) é però pure un concetto che incontra sempre maggiori favori all’interno della pedagogia. Viene quindi tradotto in concreti approcci didattici.
Perché avviene questo? Secondo qual sviluppi delle discipline umane? Secondo quali necessità politico economiche?

“Le politiche neo liberali che concernono la scuola occultano così le dimensioni culturale, umana e cittadina dell’educazione. L’autonomia nei sistemi di formazione diventa una direzione di ricerca avvalorata: non bisognerebbe, si domanda apertamente l’OCDE, ammettere che l’epoca dei sistemi di insegnamento monolitici è finita e che bisogna pensare a delle forme di insegnamento differenziate, flessibili, che permettano di regolare l’offerta educativa sui bisogni espressi dagli individui? L’idea è qui quella di sviluppare l’autonomia degli istituti, ma pure quella degli allievi, in un insegnamento sempre più alla carte, insegnamento che rischia di squalificare ogni aspetto di «socializzazione» della scuola, come pure tutto il lato «sviluppo culturale» di una società, per centrarsi essenzialmente sull’individuo, tesi cara ai liberali. Sotto l’influenza dei dirigenti economici si mettono in moto dei tentativi di fondare un mercato educativo a partire dalle nuove tecnologie della comunicazione: delle forme di insegnamento a distanza permettono a coloro che hanno i mezzi di sopportare essi stessi i costi della loro istruzione, di proseguire la loro scolarità a casa. Nico Hirtt segnala che la banca d’affari Meryl Lynch stima che questo settore nel 2002 rappresenta un mercato di 54 miliardi di dollari e che 1,7 milioni di bambini beneficiano già, a oneri dei loro genitori certamente, di una «home schooling» negli Stati Uniti1. Bisogna sottolineare che tutti questi movimenti attuali, in favore di una più grande autonomia, mescolano allegramente dei concetti altrettanto vaghi quali quello di autonomia, di individualizzazione e di differenziazione pedagogica”
(Heimberg, Varcher, pagg. 22-23, traduzione del sottoscritto).

La grande ricchezza e varietà di autonomie sono fonte di profonda confusione concettuale. In verità, se il quadro concettuale appare ampio, ricco, e difficilmente riconoscibile e distinguibile in tutte le sue parti e correlazioni, la spinta individualista e competitiva è assolutamente chiara unica e coerente con gli sviluppi della globalizzazione del lavoro. E un progetto assolutamente chiaro di deregolamentazione e di apertura ai servizi privati (come vedremo in seguito).

Il lemma di Autonomia si trova all’incrocio di processi:
– di ordine politico economico,
– di ordine è gestionario, così ben espresso nel “New Public Management”,
– di ordine psicologico e pedagogico.
Nell’ordine politico economico il concetto rappresenta uno degli sviluppi obiettivi materiali economici concreti precisi, sfociati dal processo di Bologna e dal protocollo di Lisbona.
A livello istituzionale, trattiamo così dell’autonomia degli istituti, trattiamo del rapporto fra apprendimento formale informale, rapporto che questiona la competizione fra scuola pubblica scuola privata;
a livello individuale, trattiamo del concetto di capitale umano.
Abbiamo quindi a che fare con il peso crescente delle competizioni tipo PISA e il governo neo-liberale sulla scuola (cfr. Varcher).
Da un punto di vista gestionario abbiamo a che fare con la “responsabilità autonoma e individuale”:
– del docente per i propri aggiornamenti e la propria formazione permanente in ambito educativo (così che le necessità di aggiornamento e approfondimento diventano una scelta individuale prima che di istituto, proprio come per gli operai deve assicurare le proprie competenze e la propria impiegabilità);
– dell’allievo che deve investire analogamente nel proprio capitale. Da un punto di vista psicologico, lo sviluppo delle scienze cognitive ha conosciuto oggi un forte sviluppo:
– di modelli psicometrici che da descrittivi assumono un ordine prescrittivi, specie nella scoperta e descrizione di nuovi “prescrittivi” di competenze; – di modelli neo-cognitivisti, descrittivi dei processi, dei canali e dei meccanismi funzionali del soggetto conoscente.
Da un punto di vista pedagogico abbiamo che fare con la necessità impellente e crescente della gestione delle differenze individuali degli allievi a scuola, in un contesto scolastico sociologicamente più complesso che nel passato e con obiettivi formativi sicuramente più spinti, quindi con la necessità della differenziazione pedagogica dei programmi.

1.2 Autonomia, competenze, differenziazione …

L’approccio detto delle competenze è un approccio che storicamente si è sviluppato in primo luogo nelle scuole professionali, in diretto legame con il mondo del lavoro e le esigenze aziendali. Da lî si è poi, via via generalizzato quasi silenziosamente a tutto il mondo della scuola. In primo luogo come espressione pedagogica del “New Public Management” e poi come obiettivo scolastico per i docenti, come gli allievi. Dal mondo professionale è passato a quello universitario, giù giù sino alle scuole elementari e dell’infanzia.

Nel 1997, l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, o Organisation for Economic Co-operation and DevelopmentOECD e Organisation de coopération et de développement économiquesOCDE), si è immischiato di educazione, mettendo in cantiere un programma – DeSeCo – di definizione e di selezione delle competenze “chiave”, destinato a portare un nuovo tipo di valutazione delle acquisizioni scolastiche. Le competenze “chiave”, nello spirito della OCDE, sono quelle “indispensabili” all’individuo per affrontare le sfide della vita e contribuire al buon funzionamento della società. I programmi sorti nei simposi hanno declinato tre tipi di “competenze”:
– sapere servirsi di “strumenti variati” (le lingue e le tecnologie) per “interagire e con l’ambiente”,
– essere capace di “interagire in gruppi eterogenei”,
– e infine sapere “agire in maniera autonoma” (cfr. La définition et la sélection des compétences clés, p. 7).

Il concetto di autonomia appare oggi come un prolungamento necessario dell’approccio delle competenze, esso stesso associato a quello della differenziazione dei programmi. I tre concetti appaiono sempre più associati.

La triangolazione fra

così viene a porsi come un apparato teorico concettuale ed organizzativo coerente ed indipendente … sicuramente con una sua rilevanza e validità teorica e pedagogico didattica, ma come vedremo in seguito, con un suo deciso strumentale proposito economico: la deregolamentazione e la delocalizzazione, l’introduzione di percorsi differenziati in formazione, la rinuncia di obiettivi di qualità per tutti, per una più economica ed efficace politica delle competenze …

Sul piano concettuale innesta ed avvia una strumentalizzazione del sapere, in salsa individualista, meccanicista e produttivista, che non ha veri e propri concreti riscontri teorici, sociali e storici nell’evoluzione delle conoscenze. Sappiamo oggi che l’epistemologia genetica é, sul piano psicopedagogico e storico, una “epistemologia sociale. vale a dire: quanto in laboratorio viene studiato cognitivamente a tavolino – il bambino che interagisce con l’oggetto cognitivo (costruttivismo, Piaget) – nella vita quotidiana, nella scuola avviene tramite le interazioni (mediazioni) con i compagni (costruttivismo sociale, Vygotskyj, Bruner, …). Ovverosia l’apprendimento, le conoscenze, sono frutto di un lavoro sociale, dello scambio di idee eccetera.

Sul piano organizzativo questa triangolazione, viene ad organizzare un ambiente di lavoro suscettibile di “ottimizzare” e “razionalizzare” le differenze individuali di crescita e di conoscenze degli allievi. La differenziazione pedagogica non é altro che una strategia di contenimento, di gestione e amministrazione dell’insuccesso scolastico e delle differenze di ritmo d’apprendimento individuali, che può però apparire illusoriamente come una strategia di compensazione delle differenze sociali e culturali degli allievi. Non per nulla un successo considerevole degli approcci differenziati risiede nella falsa idea che questi siano in sé e per sé delle strategia di lotta contro l’insuccesso scolastico.
Questa triangolazione viene infine ad organizzare un ambiente di lavoro suscettibile di alimentare strategie, comportamenti e, dulcis in fundo, “soggettività orientate verso la competizione, la concorrenza, la performance, il guadagno personale. I veri e propri strumenti specifici che garantiscono il governo propriamente neo-liberale” (cfr. C. Laval).

Dire di volere perseguire l’autonomia, o di voler insegnare l’autonomia agli allievi, è un compito in vero esaltante, quanto preda di racconti mistificatori. In verità, vedremo, che insegnare l’autonomia agli allievi molto ha a che fare con un funzionalismo certamente anche necessario, ma che con l’autonomia, nel vero senso della parola, nulla ha a che fare.

2. L’Autonomia

“Ci sono altrettante autonomie quante frittate e morali: frittata alla confettura, morale religiosa; frittata alle erbette, morale aristocratica; frittata al lardo, morale commerciale; frittata soffiata, morale radicale o indipendente, eccetera … L’Autonomia, come la Libertà, come la Giustizia, non è un principio eterno, sempre identico a sé medesimo; ma un fenomeno storico variabile, secondo gli ambienti dove si manifesta


– P. Lafargue, L’autonomie, op cit. traduzione del sottoscritto

2.1 Autonomia ed Eteronomia

Il termine autonomia, dal greco auto = da sé e nomos = legge, considera la facoltà di agire per se stesso dandosi le proprie regole di condotta o in qualche maniera le proprie leggi.
Se consultiamo il dizionario dei sinonimi e dei contrari, o il vocabolario leggiamo:

per quanto concerne l’uomo, per autonomia, i vocabolari indicano:
– la capacità di dare a se stessi le leggi a cui ci si sottomette,
– l’indipendenza di pensiero, e
– la capacità di pensare senza subire influssi e pressioni di sorta.

2.2 L’Autonomia in varie discipline

Il concetto di autonomia viene utilizzato in molte discipline. Ad esempio:
– nella tecnologia e in meccanica l’autonomia di una macchina definisce la sua capacità di svolgere un lavoro senza bisogno di cariche energetiche esterne.
Così di un aeroplano si dirà che ha un autonomia di tot km, prima che possa precipitare nel mare. Meglio, in questo caso, sarebbe utilizzare il termine autosufficienza, nel senso che tali macchine possono per un certo tempo bastare a esse stesse. Oppure possiamo considerare che l’autonomia di un computer è determinata dai programmi che supporta;
– in politica per autonomia si intende la concessione di funzioni proprie ad un organismo inferiore da parte di uno superiore. Così consideriamo le regioni a statuto speciale in determinate condizioni nazionali;
– in medicina l’autonomia si definisce tramite l’indipendenza funzionale;
– in sociologia si usa molto la nozione di autonomia per definire l’attitudine di un cittadino ad integrarsi in maniera individuale nella società, per opposizione alle situazioni di assistenza. Così tratteremo di autonomia degli anziani, delle persone in situazione di handicap, del precariato, eccetera …;
– nella teoria dei sistemi un sistema è autonomo quando le relazioni e le interazioni che lo definiscono sono determinate solamente dal sistema stesso;
– in cibernetica si considerano i sistemi chiusi su se stessi o quelli aperti sul sistema … (von Foerster).

Da questo rapido sguardo osserviamo come il concetto di autonomia possa assumere due valenze. Una di ordine statico, meccanico, di un organismo chiuso su se stesso, fondamentalmente immutabile. L’altra di ordine evolutivo, di un organismo che si modifica, che cresce ed aumenta il quantitativamente e qualitativamente le sue competenze ed il suo raggio d’azione.
Nel primo ordine di cose consideriamo le macchine, nel secondo ordine consideriamo gli organismi viventi, dove l’autonomia rivela la facoltà auto organizzativa di un organismo vivente, che cresce e si modifica. L’elemento evolutivo é qui preponderante; difficilmente possiamo considerare autonomo un bambino. Cosa significherebbe dire “questo bambino è autonomo”? Che non ha più bisogno della mamma e del papà? Che ha vinto la lotteria nazionale e che quindi può sovvenire addirittura ai loro bisogni senza che debbano più andar a lavorare? Che ha già imparato e raggiunto un livello di maturità adulta? …

2.3 L’Autonomia in età evolutiva

1) In psicologia non si dà una vera e propria teoria dell’autonomia. O meglio, la presenza del lemma esiste, ma poco ha a che fare con lo sviluppo cognitivo del bambino. In età evolutiva si tratta di un soggetto che apprende, quindi se apprende per definizione non è autonomo, ma sorvegliato, guidato, condotto, che dir si voglia.
Se si parla di autonomia non è quindi per proporre un modello di sviluppo, quanto un apparato organizzativo della relazione docente discente.

L’unico modello sviluppato e coerente dell’autonomia concerne la sua posizione etica e morale. Da un punto di vista evolutivo la morale del bambino (Piaget) passa dall’anomia, all’eteronomia e infine all’autonomia.
Anomia = il proprio punto di vista è in assunto come unico, senza alcuna considerazione per i punti di vista altrui.
Eteronomia = il valore delle azioni risiede nell’autorità di chi le prescrive.
Autonomia = interiorizzazione dell’obbligo e consapevolezza delle esigenze altrui, reciprocità fra gli individui.

Abbiamo poi molti modelli di sviluppo del bambino. Voglio qui ricordarne solo due:
– il modello piagetiano che considera le tappe dello sviluppo cognitivo nelle fasi del pensiero pre-operatorio, operatorio concreto ed operatorio formale.
– il modello freudiano, rileva l’autonomia nella fase anale, con il controllo degli sfinteri, segno della introiezione delle proibizioni e richieste parentali. Detto questo, ammesso che lo sviluppo del bambino va comunque considerato come una crescita del suo raggio d’azione, in termini quantitativi (fare di più) e in termini qualitativi, vanno considerate diverse dimensioni della crescita, e quindi dell’accesso all’autonomia. Quella:
cognitiva, nella libertà di pensiero, nella capacità di pensare, nel saper affrontare delle novità;
affettiva, nel bastarsi nelle sicurezze, nel sopportare i dubbi, nel riuscire in un intento, nell’autostima, nell’immagine di se stesso;
sociale, nel trovare e costruirsi un posto nel gruppo con un proprio lavoro e un posto nella società;
morale, come già abbiamo visto in precedenza;
funzionale od operativa, nel funzionare in un apparato, nell’amministrare un lavoro, nell’essere performanti, nel produrre lavoro.

2) In psicologia il concetto di autonomia appare in questi ultimi anni a seguito del diffondersi dei modelli costruttivisti.
Il riferimento alla psicologia evolutiva e al costruttivismo epistemologico di Piaget è innegabile, anche se molte volte del tutto implicito.
Tale modello, considera lo sviluppo cognitivo come una costruzione progressiva, determinata dall’interazione del soggetto con il suo ambiente. È un modello che considera le invarianti dello sviluppo, un modello che considera lo sviluppo delle conoscenze, organizzate progressivamente in strutture di pensiero via via più complesse. È un modello che considera lo sviluppo delle conoscenze, meno lo sviluppo del soggetto. E’ un modello di origine biologica.
Concretamente tratta di un soggetto epistemico, astratto, ideale, nella ricerca; ma idealizzato nelle applicazioni pedagogiche. Tratta di epigenesi, vale dire dello sviluppo di una conoscenza, non tratta necessariamente di genesi del soggetto.
Secondo il paradigma piagetiano è l’attività del soggetto che permette la dinamica cognitiva, di conferma, di verifica, di raccolta delle contraddizioni fra rappresentazioni e conoscenze del soggetto, fra rappresentazioni, azioni del soggetto e resistenza dell’ambiente. Nella sua attività cognitiva, è il soggetto che coordina azioni e rappresentazioni, precedentemente scoordinate, in competenze e conoscenze di livello e qualità migliori e superiori.
È l’attività del soggetto, nella interazione soggetto – ambiente, ad essere il motore dell’evoluzione.
In questo paradigma, l’ambiente considerato é quello logico – matematico, fisico, spaziale … ; ma un ambiente invariante, neutralizzato, “standardizzato”, al fine di meglio cogliere gli invarianti della crescita e dello sviluppo. Questo modello non studia necessariamente l’evolversi del soggetto reale, studia l’evolversi delle strutture logiche operatorie del soggetto epistemico

In questo modello la crescita, l’apprendimento, é sempre auto – apprendimento, che avviene sempre e comunque.
Un modello della maturazione, insomma. Quale un foruncolo che si sviluppa, cresce e alla fine maturo, secca, scoppia.
In questo modello il foruncolo, pardon il soggetto è autonomo nella sua crescita, nel suo ragionare, ecc.
… ma autonomo al centro di un apparato sperimentale condotto, organizzato, programmato dal ricercatore e dall’apparato di ricerca che lo sostiene. Quindi autonomo al centro di una procedura costruita e condotta dall’adulto (vedasi ad esempio il criteri e le modalità da adottare per l’esame cognitivo “critico – clinico” piagetiano, cfr. J.J Ducret, 2004). Ma pure “autonomo” (si fa per dire) per quanto concerne gli obiettivi ed i contenuti della interazione, che sono poi sempre quelli definiti e decisi dallo sperimentatore.

Allora quando si parla di autonomia, o auto – apprendimento a scuola, di “mettere l’allievo al centro dell’azione pedagogica”, e così via, si tratta sempre e comunque della definizione della realizzazione di una modalità d’interazione e di una modalità didattica.
L’autonomia viene quindi sempre più a profilarsi come:

  • una capacità strumentale – nel sapere concentrarsi e lavorare per un determinato tempo
  • una capacità affettiva – nel sapere restare da solo
  • ma certamente non cognitiva perché per definizione lo sviluppo cognitivo si fa in interazione.

In verità il rischio di proporre un simulacro, una vuota fraseologia, pur bella e seducente quanto euristica e misteriosa nelle sue fantasie è molto alto.

La verità è che, da un punto di vista psicogenetico e costruttivista piagetiano, la costruzione di un dispositivo, di qualsiasi dispositivo, è un “tradimento” dell’approccio originario, perché pure il dispositivo pedagogico didattico dell’ “autonomia”, è un dispositivo con obiettivi, metodi, materiali precisi, predeterminati socialmente e culturalmente (dal docente, dalla istituzione e dai programmi) e quindi per definizione la psicogenesi viene a trasformarsi per quello che sempre è, una sociogenesi. Così, nell’approccio piagetiano, la costruzione cognitiva, ovverosia l’epigenesi che un soggetto vive, viene ad essere uno sviluppo intrasoggettivo. Ciò è coerente con l’oggetto di studio del epistemologia genetica. Ma ciò che appare essere intrasoggettivo deriva solamente da una costrizione metodologica. E ciò non è più coerente con un modello dell’insegnamento.

3. L’autonomia a scuola

I sistemi occidentali di conoscenza sono stati considerati, in genere, universali. Un sistema dominante é anche un sistema locale, con insediamento sociale in una particolare cultura, classe e genere. Non é universale in senso epistemologico. E’ semplicemente la versione globalizzata di una tradizione locale e provinciale. Derivano da una cultura di dominazione e colonizzazione, i moderni saperi sono essi stessi sistemi di colonizzazione


– Vandana Shiva, Monocolture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura scientifica, Bollati Boringhieri, Torino, 1993

“Appare chiaramente che certe pedagogie sono più appropriate per lo sviluppo delle competenze richieste dalle economie fondate sulla conoscenza. Così, le pedagogie fondate sugli apprendimenti per problema e per progetto, sull’autonomia dell’apprendimento, e che mettono l’accento sulle pratiche, sono i tratti che favoriscono lo sviluppo di competenze comportamentali individuale collettive”
(Paul, Suleman)

L’avvento dell’Autonomia in pedagogia a scuola è diretta conseguenza dell’economia della conoscenza, dell’approccio delle competenze, della riduzione dell’impegno e responsabilità statale per la formazione dei cittadini.

Va distinto un piano concettuale, dottrinario, sviluppato: da un lato a livello degli esperti ministeriali, dall’altro dai pedagogisti e dei ricercatori “indipendenti”, dal piano organizzativo, quotidiano nell’impostazione didattica dei docenti.

In verità, premesse, obiettivi e definizioni, dei due livelli molto spesso si ignorano reciprocamente.

Abbiamo due applicazioni dell’autonomia:
– in classe,
– nella scelta del curricolo, tra apprendimenti formali ed informali.

3.1 L’autonomia in classe

Oggi si fa gran parlare di autonomia. Lo si fa ovunque, lo si fa molto anche nella scuola. La scuola richiede l’autonomia degli allievi. Attorno a tale concetto c’è molta, non molta, confusione.
Si usa un concetto profondo, di carattere evolutivo, psicologico, biologico, sociale, antropologico, psicanalitico, dimenticando in primo ordine che si può sempre considerare l’aumento, la crescita quantitativa e qualitativa della autonomia.
Quando la scuola parla di allievo autonomo, in verità, per lo pi ci troviamo davanti un allievo funzionale, adattato, produttivo, in eteronomia. Allora prima di tutto va fatta un po’ di chiarezza sul termine. In secondo ordine penseremo al suo utilizzo scuola.
Penseremo infine alle significazioni sociali nell’utilizzazione di tale concetto.

Un po’ di chiarezza

Auto = primo elemento di parola composta che significa “di se stesso, di sé, spontaneamente”.

Nomia = seconda parte di parola come posta che significa “norma”.

Autonomia = capacità di dare a se stessi le leggi cui ci si sottomette. Autonomia di pensiero Capacità di pensare senza subire influssi o pressioni di sorta.

Parlare di autonomia scuola ha un po’ della ingiunzione paradossale, un po’ come dire “sii autonomo”. Un concetto che induce a paradossi (Watzlawick).

Etero = primo elemento usato in parola composta che significa “altro, diverso, differente”.

Eteronomia = La norma del proprio comportamento in altro/in altri.

Apprendere = imparare, venire a sapere.

L’utilizzazione a scuola
A scuola è errato parlare di autonomia. L’autonomia assume solo un significato operativo, produttivo. Del tipo: il bambino sa cosa deve fare e lo sa fare da solo. Funziona dunque.
A scuola il concetto di autonomia é ridotto al funzionare. Non si riferisce al suo etimo: quell’ “auto” e quella “nomia”.
A scuola si parla di autonomia quando il bambino lavora da solo. Si apre qui allora un ventaglio di possibilità. Prendiamo due estremi:
– il bambino aprite regole, esegue una scheda o un esercizio, sviluppa meccanismi, attua algoritmi,
– il bambino affronta qualche cosa per lui parzialmente o totalmente nuovo. Nella prima situazione applica, nella seconda situazione ricerca.
Senza farla lunga, ricordiamo che le condizioni, gli obiettivi, gli strumenti, ma specialmente la motivazione e la sicurezza di se di fronte all’imprevisto sono elementi determinanti; coinvolti in maniera decisamente altra.

Apprendere = imparare, venire a sapere

E’ vero si sente molto dire: “… cos il bambino impara da solo …”, come se imparare da solo fosse cosa buona e giusta, come se imparare da solo fosse il massimo del godimento e il massimo di valori.

Auto – apprendimento (apprendimento autonomo).
Cosa significa?
È possibile? In fondo, in qualche modo, c’è sempre un’auto apprendimento (senza farla lunga, ricordiamo qui i ruoli della ripetizione (reazioni circolari) e dell’intuizione, delle relazioni che ripetizione ed intuizione intrattengono, dell’equilibrio fra assimilazione ed accomodazione, dell’equilibrazione degli schemi operatori, dell’astrazione riflettente).
Auto apprendimento starà a significare un modo di stare: “sto solo, non ho bisogno degli altri”.

Tranne che per il soggetto astratto, qualsiasi apprendimento è sempre determinato da:

  • obiettivi e livelli pedagogico didattici,
  • strumenti,
  • conoscenze,
  • aspettative, ci
  • cultura d’origine,
  • famiglia,
  • motivazioni, esperienza, disciplina.

Se non avessimo tutte queste determinazioni, e magari altre ancora, ogni differenza di origine socio economico e sessuale non avrebbero ad essere.

Per il soggetto, se l’apprendimento è sempre determinato, a cosa riporta il lemma ”auto” messo davanti ad apprendimento? Si riferisce evidentemente ad una modalità che vede il discente solo, senza interazione sociali. Un soggetto autarchico, solipsita, o che dir si voglia.
A la scuola, in genere, ogni volta che un bambino fa un esercizio, che copia dalla tavola nera, che disegna o esegue dei calcoli si dice che è attento e concentrato.
E l’autonomia operativa la si misura con la riduzione del rumore. Non una vera autonomia, quella che lascia la persona libere di inventare le forme di vita del domani, che permette al soggetto di trovare le nuove soluzioni, di darsi le proprie linee di condotta, ma l’autonomia utilizzata quale levar per la normalizzazione globale dei comportamenti.

“In apparenza, l’approccio delle competenze presenta l’allievo come autore del suo proprio apprendimento: l’allievo costruirebbe da se stesso il suo sapere; ecco perché l’insegnante dovrebbe annullarsi e diventare “l’animatore del rapporto tra l’allievo e il suo apprendimento”. Ciononostante, contrariamente a quanto lascia pensare questa visione, l’allievo non è considerato come un soggetto. Lo resta ad un livello superficiale, ma questo livello coabitata con la sua riduzione ad un altro livello dell’allievo come puro oggetto di padronanza” del docente.
(del Rey p. 116).
“Lo slogan secondo il quale il professore deve cancellarsi dietro il rapporto dell’allievo al sapere – perché è l’allievo che costruisce il suo proprio sapere – significa dunque dire in realtà che, a condizione di ben comprendere come l’allievo costruisce il suo sapere, si può tranquillamente manipolare i meccanismi senza avere l’aria di intervenire”
(del Rey p. 117).
“in nome della emancipazione pedagogica, si fa proprio contrario: si normalizza (…) l’emancipazione dell’allievo o dello studente non è che un nome posto sul processo contrario: un dressaggio, una normalizzazione, una formattazione (…) è nella sostituzione delle sperimentazioni concrete, situazionali, delle pedagogie attive, in una visione astratta dell’umano e tecnicista della sua educazione che il processo di gestione delle risorse umane ha preso il passo sull’emancipazione dall’educazione”
(del Rey p. 120).

L’autonomia dell’allievo si basa tutta su degli apparati didattici, corsi in linea o schedari differenziati, epistemicamente “corretti”, dove al docente si richiede una buona competenza disciplinare e amministrativa. Si basa poi su una idea di allievo ideale (cfr. Durler, 2009)

Perché chiamare autonomia ciò che semplicemente è attenzione, concentrazione, applicazione, forte impegno, raccoglimento, capacità di stare da solo nell’esecuzione di un esercizio?

L’idea di autonomia scuola oggi, è un idea efficace quanto semplice nella sua descrizione. Ma forse difficile nella realizzazione. È certamente prima di tutto un’idea organizzativa ed una necessità per il lavoro differenziato. È sicuramente meno un concetto esplicito, approfondito, coerente con le conoscenze della psicologia dell’età evolutiva.
In verità, si considera autonomo un bambino quando sa stare da solo, chino su di un esercizio, senza che questo suo stare nell’esercizio debba richiedere l’intervento dell’aiuto del docente.
E’ un idea funzionale quella che domina questa immagine; funzionare in un apparato.

Un’idea, quasi quale fosse una disposizione totalmente indipendente ed individuale, rinchiusa in un cerchio stretto dove l’individuo trova tutto ciò di cui ha bisogno per vegetare, come un topo nel formaggio (riprendo quest’immagine dall’interessante articolo di P. Lafargue).

Un’idea che male nasconde il suo desiderio di allontanarsi dalla visione behaviorista o neo cognitivista della apprendimento e dell’uomo. Una visione meccanica, individualista che vede l’allievo chino sul banco, impegnato a compilare schede, eseguire calcoli, risolvere problemini, eccetera. Specialmente senza perdere tempo, senza ricorrere all’aiuto del docente, specialmente da solo.
Un’idea dell’ordine produttivistico. Ma pure un’idea ibrida, un’idea modulata dall’organizzazione tayloristica del lavoro (organizzazione del lavoro basata sulla catena di montaggio, ognuno al suo posto a svolgere il compito che gli è stato affidato).
Una siffatta idea ed organizzazione del lavoro scolastico può essere semplicemente descritta ricorrendo al concetto di disciplina. Una allievo disciplinato è un allievo che si dà da fare, non disturba, si impegna, alza la mano solo quando il momento, eccetera.

In età evolutiva invece non c’è nessun riferimento di tipo produttivistico, dell’ordine prescrittivo, del genere “saper fare una determinata cosa …”, “saper stare in una determinata situazione …”.

L’ingiunzione “devi lavorare in autonomia” è poi dell’ordine paradossale, perché implica che il soggetto autonomo possa e debba sovvertire l’ordine prescelto da suo
Se svolge quanto gli viene chiesto non è autonomo, ma dipendente (salariato o meno).
Se vuole essere autonomo non può svolgere la mansione affidatagli. In termini psicologici, quanto a scuola viene definito operativamente quale autonomia – ad esempio un bambino è autonomo quando sa svolgere determinate schede ed esercizi da solo, senza nessun aiuto da parte del docente – in verità si definisce dipendenza dal campo 2.
La capacità di operare è in verità una incapacità o impossibilità di stare fuori dal campo. Quello che la teoria della Gestalt 3 ci hanno bene insegnato è il ruolo della percezione e il legame di quest’ultima da alcune caratteristiche delle configurazioni percettive. Le leggi di un campo non dipendono dalle caratteristiche singole degli elementi che lo compongono ma dalla configurazione e dal movimento (interno) del campo globalmente considerato.
Gli eventi che si verificano in un campo dato, ad un momento dato, non hanno altra spiegazione valida se non quella che deriva dalle proprietà del campo stesso.
Siamo in verità nel campo del pensiero totalmente convergente e si spaccia la dipendenza come autonomia, questa la verità della novlingua dell’approccio “delle competenze applicate”.

L’autonomia così considerata non è niente altro che l’automazione, di algoritmi, di meccanismi, di procedimenti, di pattern applicati e funzionanti. Un’idea meccanica dunque, di derivazione tayloristica, direttamente dalla fabbrica.
Un’idea spiegabile con “la reazione circolare”. La reazione circolare è un esercizio funzionale acquisito, mirato al mantenimento o alla riscoperta di un risultato interessante. La reazione circolare è da concepire come un sistema attivo di assimilazione e di accomodamento.

In quest’ordine si sovverte totalmente il senso e il significato del concetto. E se la questione fosse solo linguistica poco ci importerebbe. In verità la questione è molto più importante di questo bisticcio lessicale. Indica un profondo rivolgimento della cultura scolastica e della pratica pedagogica: l’introduzione, sottobanco, di una terminologia che non è altro che l’avanzare del mondo economico nella scuola, una normalizzazione “dell’uomo economico”, indica la forza di penetrazione del potere economico ed ideologico che ha posto la scuola sotto il giogo dell’ottimizzazione, della razionalizzazione e della delocalizzazione.
In verità, ogni formazione sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato a perpetuare una determinata funzione tradizionale, direttiva o strumentale e produrre una scuola in diretta sintonia con le necessità produttive

Anche se (taluni) autori e fautori della approccio delle competenze si richiamano alla psicologia cognitiva, costruttivista, socio-costruttivista, (vedi scheda annessa) l’origine del “movimento delle competenze” così bene già radicato nell’ufficialità pedagogica odierna, male nasconde i suoi fondamenti neo behavioristi o comportamentali, della psicologia americana degli anni 70. La conversione dei programmi in liste di “competenze attese”, come pure l’esercizio accordato alle valutazione ed ai confronti nazionali ed internazionali, comporta di fatto la produzione, quale criteri di valutazione, di veri descritti comportamentali. Descrittivi che diventano prescrizioni … Si potrebbero valutare i legali fra epistemologia genetica e pedagogia della differenziazione, vale dire i passaggi concettuali ed organizzativi dalla prima alla seconda (vedi scheda annessa). Sono passaggi che isolano l’individuo dalla relazione sociale, riducendo la relazione alla relazione con l’apparato didattico (classificatore, scheda, …) differenziato, per cui la conoscenza diventa il classificatore compilato debitamente.

Per questo, la pedagogia della differenziazione e la didattica differenziata, possono parlare di autonomia. Per questo e non peraltro. Per questo si può propugnare e considerare il raggio d’azione dell’allievo quale autonomia. Così si misura il numero di schede eseguite e il numero di test superati.
Principalmente la si osserva nello stare dell’allievo in un apparato di lavoro determinato.

L’Auto – Apprendimento? E’ un nuovo concetto psicologico? Oppure una dinamica pedagogico didattica?
L’escamotage politico pedagogico si giustifica da un punto di vista relativo all’imperioso approccio delle competenze.

Tutto ci si giustifica fortemente sul piano sociale politico borghese capitalistico, del “new Public Managemet e bene rende al neo liberismo e alle spinte mai sopite della privatizzazione

La definizione psicologica è molto meno giustificabile ed accettabile. Non fa l’economia di Vygotskyj, dell’apprendimento cooperativo, del concetto di zona prossimale di sviluppo, per cui l’apprendimento è appropriazione, per cui il sapere si sviluppa prima socialmente poi individualmente, per cui le conoscenze elaborate dal gruppo anno qualcosa di superiore, allargato rispetto le conoscenze sviluppate dell’individuo.

Purtroppo, in una siffatta costruzione, prevalgono dei controlli pedagogici piuttosto “procedurali” in invece che concettuali “riflessivi”. Il rapporto al sapere é frammentario e di tipo esecutivo. Un processo disciplinare neo – comportamentista, behaviorista. Analizza l’apprendimento di una competenza, di un sapere, di un saper fare, in termini di meccanismi, di requisiti, di canali, di velocità, di processamenti, di memoria di lavoro, a breve o a lungo termine, e cos via. Per cui il lavoro pedagogico è finalizzato all’esercizio di determinate abilità, atte a rendere più performante l’allievo che impara. Non lo si può negare, tutto ci ha una sua validità e non può essere rigettato. Allora, per venire alla terza questione, chiediamoci: perché questa fraseologia? A che buon pro? Da un punto di vista sociale il riferimento sempre più presente all’autonomia cosa può indicare?

  • Che l’apprendimento è fuori controllo?
  • Che è fuori controllo dall’istituzione scuola?
  • Che avviene e si attua da solo (magari anche a scuola)?

Oppure che deve essere fuori controllo, che si vuole, o si auspica, che sia fuori controllo … ?

Allora certamente qui il richiamo all’auto apprendimento diventa un riferimento all’informale (che lo Stato non abbia il controllo dell’informale!).Con l’autonomia e il concetto di sapere quale capitale umano, lo Stato rinuncia a perseguire le pari opportunità per tutti. È quindi un “escamotage” politico – pedagogico, un escamotage che maschera l’abbandono, che statuisce l’abbandono del controllo, che impianta la delocalizzazione.
Il concetto di “Autonomia dell’allievo” è un escamotage politico che maschera e rimuove le differenze sociali ed economiche delle famiglie, le appartenenze culturali, le origini individuali, un concetto che evita di porre la necessità di rimediare a queste differenze4 .

3.2 L’Autonomia nella scelta del curricolo fra apprendimento formale ed informale, fra standard e Portfolio

Così si professionalizza il concetto di autonomia inserendolo in un contesto organizzativo, che prevede:

  1. l’attitudine dell’allievo a fare
  2. la marginalità dei controlli che si fanno superflui
  3. l’accentuazione dell’apprendimento informale.

L’idea stessa del lavoro autonomo a scuola introduce l’autonomia dell’apprendimento, ma, di conseguenza completamente svuotato il senso evolutivo, psicologico, personale e privato del singolo allievo, rimane solo quello sociale, politico ed economico. L’apprendimento informale, le scuole ed i corsi privati …

Siccome l’idea stessa egemonica di autonomia implica:
a) un accento produttivistico, della crescita e dell’evoluzione umana, e qui siamo sull’ordine ideologico e culturale,
b) una modifica strutturale nella formazioni educative. Il costante accenno all’autonomia significa in verità, che deve avvenire “fuori dal mio controllo”, ma conformemente alle valutazioni e le necessità (PISA). Questa è la vera lezione: l’introduzione di scelte pedagogico politiche che implicano la dimissione delle Stato. Scelte che implicano l’assenza di giustizia re distributiva …

L’ipotesi fondamentale della teoria del “capitale umano” e che quando l’individuo si forma o si educa è un po’ come se si trasformasse in padrone di se stesso, investendo le sue facoltà e facendole fruttificare. Considerando che nell’economia attuale della detta “società della conoscenza”, si impara sempre, si tratta certamente di ben certificare gli apprendimenti, al fine di contabilizzare gli “investimenti cognitivi”, cercandone l’efficacia.
L’educazione è un investimento sicuro del capitale umano, un generatore di crescita e di occupazione professionale. Bisogna investire sulle competenze. Ecco allora disposizione il “Portfolio delle competenze”, quale testimone del capitale cognitivo personale (in verità nella nostra società capitalistica, il vero prolungamento e sostituto della forza lavoro fisica).
In questa dinamica, fra apprendimenti formali ed informali, la capacità di autonomia del discente è fondamentale, in quanto imprenditore di se stesso, in quanto competenza per l’ottimizzazione di sé, in quanto attitudine ad intraprendere quei passi necessari per meglio rendere efficace il proprio investimento. Si tratta qui di una visione completamente nuova dell’educazione, dove ogni individuo, quando viene educato, è visto come padrone in miniatura, che investe sulle sue competenze (il suo capitale – sapere). Su questa linea si possono distinguere il “capitale umano specifico”, quale bagaglio di competenze non trasferibili, vale a dire lei tecniche, il “capitale umano generico”, quale bagaglio trasferibile, come saper risolvere il problema, saper dialogare, ecc …

4. per finire

In verità l’autonomia è un valore assoluto ed un obiettivo elevato, quanto complesso. L’autonomia come obiettivo dell’educazione trova un fondamento in un etica che si sviluppa dall’organizzazione all’autodisciplina. L’autonomia morale è del soggetto che sceglie e non si fa scegliere attraverso il conformismo sociale. Significa soprattutto autodisciplina intellettuale. La disciplina non può essere considerata soltanto un mezzo di educazione. Essa é il risultato del processo educativo, in prima linea il risultato degli sforzi del collettivo stesso degli uomini, che si manifesta in tutti campi della vita.
(Antonio Gramsci).

Annesso: scheda: competenze ed autonomia dell’allievo. Il soggetto epistemico e le corruzioni della globalizzazione.

Per il costruttivismo cognitivo, il soggetto epistemico è un soggetto autonomo. Un soggetto in relazione con l’oggetto della conoscenza, ma senza mediazioni con altri soggetti, del gruppo dei pari o adulti che siano.
Il soggetto epistemico, per definizione, è un soggetto astratto, un soggetto autarchico che costruisce le proprie conoscenze e le proprie rappresentazioni, attraverso l’esercizio delle proprie singole funzioni. Tutti siamo concreti soggetti epistemici (cioè soggetti che imparano e che costruiscono conoscenze), ma il soggetto epistemico non è un soggetto concreto. Nei modelli piagetiani ritroviamo tutti i bambini, ma nessun bambino concreto corrisponde al soggetto epistemico descritto. L’epistemologia genetica non è la psicologia genetica (dell’età evolutiva). La relazione fra il soggetto epistemico ed il bambino reale, l’allievo non è reversibile.
Per il socio-costruttivismo, il soggetto epistemico è un soggetto socio-epistemico. Non è quindi più un soggetto autonomo.
Per la psicologia costruttivista sociale di Ginevra, (Doise, Mugny), per la psicologia storico culturale (Vygotskyj), l’interazione sociale è il motore per i progressi cognitivi (il gruppo sviluppa soluzioni qualitativamente superiori alle soluzioni individuali).
Le tappe di sviluppo di una conoscenza (gli stadi) sono soggette a delle regole di crescita: hanno una successione logica e necessaria, determinano una maturazione che ha tappe invarianti.
Ma la psicogenesi che così può apparire autonoma ed intrasoggetiva è in verità una sociogenesi.

Tre sono gli elementi che desidero mettere in relazione in questo articolo. 1) la definizione, la comprensione e l’impiego del concetto di soggetto epistemico così come presente oggi in buona parte della cultura scolastica;
2) le tentazioni di globalizzazione o di omogeneità e la differenziazione dei programmi;
3) la mescolanza, il matrimonio tra quotidianità pedagogico procedurale e l’epistemologia

Primo

Il soggetto epistemico si giustifica teoricamente e metodologicamente nel tentativo di descrivere l’evoluzione della cognizione. Esso occupa un posto concreto ed utile nel panorama della psicologia dell’età evolutiva. Ma si sa pure che questa correttezza metodologico-teorica si applica appunto solo al campo epistemologico.
Accanto al soggetto epistemico possiamo concepirne degli altri soggetti, ognuno con delle caratteristiche peculiari, irriducibili agli altri soggetti: da quello artistico a quello sportivo, da quello creativo a quello meccanico … sino al soggetto “allievo”. Quest’ultimo sarà il più aderente al bambino, quanto più terremo conto della sua globalità esistenziale.
In questo senso il concetto di soggetto epistemico corrisponde ad una procedura locale o localizzabile in un preciso contesto della tradizione scientifica (che é la procedura di ricerca scientifico-epistemologico) oltre che metodologica.
Procedura che, al meglio, determina e definisce le relazioni tra soggetti come una relazione invariante tra soggetti invarianti (in un ambiente pure invariante), tesi tutti insieme come in una pura comunità scientifica alla co-costruzione enciclopedica. In verità tale procedura é una procedura che fa astrazione di qualsiasi pluralità soggettiva. Il soggetto epistemico, pur astratto quanto si voglia, é dunque un soggetto locale come tutti i soggetti: un soggetto che deriva da una tradizione locale, che ha le sue metodologie, che deriva da un paradigma scientifico, che ha un apparato concettuale, che occupa una posizione all’interno del sistema delle scienze, che però si diffonde nel mondo tramite un processo d’insegnamento, e si generalizza. Ma non é certamente un soggetto universale, né nel senso delle pratiche d’insegnamento, né nel senso della percezione del soggetto cognitivo, da parte dei genitori, dei docenti, degli educatori, dei legislatori e così via … Molti sono gli insegnamenti e le metodologie didattiche che alla loro base non adottano una osservazione epigenetica …

Quello che teoricamente e metodologicamente é corretto considerare soggetto epistemico é altra cosa, lo si sa, dal soggetto reale.Vale a dire: il soggetto epistemico che é un soggetto astratto, in verità é un soggetto con proprietà locali: cioè determinato nei suoi sviluppi specifici da un ambiente culturale, economico e sociale dato: che, per l’appunto, nell’osservazione epistemologica, costruttivista, tradizionalmente tratta di un ambiente denaturato, nel senso che lo definisce come un ambiente che fa astrazione delle sue variabili, ovverosia un ambiente alienato, un ambiente di laboratorio, artefatto, controllato e neutralizzato.
Eppure il soggetto epistemico é globalizzato, la pratica locale d’insegnamento che lo pone alla sua base viene diffondendosi. Come?
Come vedremo in seguito:
– in primo luogo riducendo il processo d’insegnamento/apprendimento alla padronanza disciplinare del percorso didattico (matematico, linguistico, eccetera);
– in secondo luogo nella realizzazione ed applicazione degli apparati pedagogici differenziati;
– in terzo luogo nella formazione stessa dei docenti. Vero e proprio tasto dolente della nostra professionalità. Se, bene o male, una padronanza disciplinare l’abbiamo, che si tratti di matematica, lingua, geografia, storia, eccetera, se bene o male dei modelli psicologici dello sviluppo li abbiamo imparati, in verità la relazione che intessiamo con i nostri allievi si basa sulla nostra immane ignoranza dei problemi sociali ed economici, dei quartieri degli allievi, delle storie dell’immigrazione, della disoccupazione, della xenofobia o della salute, del costo della vita e dello spazio della cultura scolastica nelle famiglie …

Il soggetto epistemico viene massificandosi; nell’approccio delle competenze da descrittivo si trasforma in prescrittivi. L’allievo diventa un soggetto epistemico, individuo “autonomo” della propria epigenesi (e nella propria epigenesi, proprio come un topo nel formaggio), un approccio che fa strame delle differenze fra bambini. Se tiene conto delle differenze di ritmo, di livello dei bambini, le tiene in una ottica “normalmente operatoria”, procedurale, globalizzante.

La metodologia adottata per scoprire lo sviluppo epigenetico – lo sviluppo delle conoscenze e delle rappresentazioni del bambino in età evolutiva – era ed é corretto da un punto di vista strettamente epistemologico. Non é più corretto se tale paradigma viene preso isolatamente come paradigma dominate del processo di costruzione delle conoscenze e della propria soggettività. Ecco che un paradigma locale relativo alla epistemologia viene recuperato e globalizzato in un’ottica che, insensibile alle variazioni individuali dei soggetti e dell’ambiente, clona bambini e allievi.
La questione epigenetica viene riassunta negli schedari. La questione epigenetica viene liquidata in una forma progressiva di presentazione di determinati contenuti (che siano classatori, schedari, lezioni in linea), dove il significato (la materia da conoscere, la disciplina) viene confuso con il significante (la sua rappresentazione sotto una forma data). Tutti uguali davanti agli apparati pedagogici differenziati, … ma normalizzati. Tutti funzionano, ottimizzati, chi più chi meno, ognuno ha un suo posto.
Evidentemente una conoscenza epistemologica, una conoscenza delle tappe dello sviluppo delle conoscenze del bambino e delle sue rappresentazioni relative ai vari campi del sapere sono estremamente necessarie.

Sono necessarie sotto vari aspetti.
Per conoscere meglio lo sviluppo di una data conoscenza, per meglio conoscerne le sue parti costitutive, per meglio sapere cosa si sta facendo, … ma per meglio conoscere le relazioni tra materia da insegnare e disponibilità cognitiva dell’allievo, ecc, … ma infine per ricordare che il punto di vista dell’osservatore epistemico non é quello dell’osservatore allievo. Questa é uno dei primi insegnamenti da trarre immergendosi nella epistemologia genetica. Il soggetto bambino non dispone e non conosce i dispositivi psico-pedagogici utilizzati nella ricerca epistemologica.

Lo sviluppo delle conoscenze del bambino viene confuso con lo sviluppo del bambino, che l’epistemologia genetica viene confusa con la psicologia dell’età evolutiva; che lo sviluppo del bambino viene ridotto allo sviluppo di conoscenze predeterminate, …
Il bimbo viene segregato nelle sue determinazioni sociali e alienato dalla sua soggettività che é affettiva, culturale, esperienziale, ecc …? Poco importa, questo diventa la pedagogia quotidiana moderna, la pedagogia dell’era della globalizzazione e dell’individualismo produttivo competitivo, assunto a virtù: un’ottica che ha trovato nel modello epistemologico (genetico o non) una suprema giustificazione per rimuovere le determinazioni sociali.
In epistemologia genetica le derivazioni locali, le varianti, non sono rilevanti (non devono essere rilevate) – per il disegno, il paradigma stesso dell’epistemologia che vuole trattare lo sviluppo delle conoscenze, questo e non altro.
I processi di globalizzazione, lo vediamo quotidianamente, fanno strage delle variabili locali, impongono ovunque gli stessi paradigmi, economici, d’efficacia e così via.
Queste determinazioni locali non possono rientrare, affinché non pervertano i processi di standardizzazione.
Ecco un punto di incontro …

Secondo (la pedagogia della differenziazione come riflesso della globalizzazione?)

E’ vero che oggi nella scuola si parla molto di differenziazione dei programmi. Questa differenziazione permette ai suoi autori di considerare le differenze individuali fra allievi. Permette di programmare percorsi didattici vicini alle capacità dei bambini. Ma cosa, come, quando e perché si deve differenziare? Gli approcci di insegnamento o il livello delle conoscenze? In difetto della possibilità concreta di moltiplicare i nostri approcci in una classe, differenziamo i livelli.
In verità una osservazione attenta scopre nella scuola molteplici tentativi di differenziazione dei programmi.
Il principio fondatore é il medesimo. Per una data materia si fornisce all’allievo una complessa raccolta di schede catalogate in maniera progressiva secondo la difficoltà (raccolta che si suppone comprensiva di tutte le difficoltà da acquisire per un dato programma). Il materiale é organizzato sotto forma di schedario o di un libro con percorsi molteplici, o fornito in linea sotto forme di dispense che lo studente legge. Il percorso affrontato dall’allievo viene così determinato di caso in caso a seconda delle necessità (con una programmazione che non é più dunque solo quella del piano settimanale della classe). L’allievo può così affrontare un suo sentiero personalizzato, nella velocità e nella “località” (temi) da affrontare. In genere questo apparato fornisce al bambino tutto il materiale di base da svolgere già alla partenza del processo di insegnamento-apprendimento (dicendo “questo é quello che alla fine dovrai aver acquisito”)

Questa modalità di lavoro può essere ravvisata sotto una metafora architetturale. In genere su un cantiere di una casa l’impresa edile si fornisce:- di tutto il materiale: mattoni, cemento, sabbia, legna, …- degli strumenti di lavoro, piccone, pala, ecc … del progetto rappresentante l’immobile da costruire.
Questa del cantiere é una buona immagine per capire diverse cose. Innanzi tutto il primo problema a sapere é chi fa lettura del progetto. In genere il capo cantiere …
Poi questa immagine di un gruppo di lavoratori con specializzazioni differenti indica come gli operai non siano intercambiabili: chi muratore, chi gessatore, chi elettricista, chi architetto, ingegnere, capo cantiere, impresario, ecc … molte sono le figure con differenti gradi di specializzazione manuale e specializzazione intellettuale. Per semplificare su un asse solo: in questo gruppo c’é chi svolge attività prevalentemente meccaniche, ripetitive e altri che svolgono attività di lettura e direttive, vale a dire di supervisione e controllo di quanto altri sottoposti devono svolgere. Questa é la stessa situazione di una classe dove incontriamo: bambini attivi, lettori della realtà, immaginativi, ecc … ed altri prevalentemente esecutivo-meccanici.
Per cui la prossima domanda da fare é la seguente: i programmi differenziati a cosa mirano? Il materiale di differenziazione deve servire principalmente alla costruzione dell’autonomia del bambino, alla valutazione dell’autonomia o al lavoro autonomo? In verità ogni singolo lavoratore impiegato nell’impresa di costruzioni precedente gode di una sua autonomia … ma non sono certamente tutte corrispondenti. Ma soprattutto non si venga a dire che portare a termine il programma corrisponde automaticamente e acriticamente alla autonomia infine raggiunta. In verità poi si dimentica che sono una squadra, altro che individui in autonomia.
Piuttosto potremmo dire: “questo allievo rispetto l’insegnamento XY lavora in modo autonomo, funziona, riesce a stare attento e concentrarsi”, cioè esegue le schede da solo.

La differenziazione dei programmi assolutamente non é un’automatica garanzia del riconoscimento della diversità culturale di ogni allievo (e anche se dovesse ben essere un riconoscimento della diversità culturale non si capisce perché gli si deve proporre un percorso disciplinare differenziato). Non é un garante delle modalità di lavoro del bambino e di avvicinamento al programma proposto. Il rischio é quello di considerare il bambino sotto il solo piano del funzionamento, della capienza della sua memoria di lavoro, della potenza del suo “processore” e così via, navigando sulla metafora del computer. Semplicemente la differenziazione é un apparato per meglio permettergli di funzionare a “suo” pieno ritmo. E in questo é certamente un risultato molto importante. Ma liberare la soggettività del soggetto (del bambino), e stimolare la sua autonomia, significa andare oltre questo pur importante risultato. Si tratta sempre e comunque di creare senso, di liberare la soggettività, di permettere al desiderio di gonfiarsi. In un tale apparato didattico si tratta quindi di scoprire come il lavoro con materiali di tipo cognitivista possa liberare tempo e spazio per una pedagogia della scoperta, dell’invenzione e della creazione.

Si pone ora però la necessità di cambiare livello e dire invece che: malgrado le apparenze, la scuola non opera nessuna differenziazione meritevole di tal termine. La sola differenziazione che riesce a sviluppare é quella istituzionalizzata e presente in materiali con tanto di manuale d’uso (i curricoli differenziati presentati brevemente in precedenza) per meglio omogeneizzare e globalizzare un modello generalizzato di materiale (la matrice). Il costruire percorsi didattici ad assetto variabile, con percorsi alternativi, ecc … non significa di per sé rispettare la diversità presente in ogni bambino. Non significa affrontare la questione a sapere perché nell’ambito del cantiere ha propeso per una posizione piuttosto subalterna (facendo il “manovale non qualificato” per esempio) oppure ha propeso per una funzione direttiva, intellettuale, ecc … Dietro questo apparato per un certo numero di bambini rimane un vuoto relazionale, resta un vuoto cognitivo. Resta una individualistica ottimizzata “autonomia”, svuotata di progetto, di desiderio e motivazione.

Se per una parte dei bambini questa modalità di lavoro sono soddisfacenti, ciò avviene grazie al loro bagaglio: maturità cognitiva, conoscenze enciclopediche, esperienze motorie, manuali, percettive, relazioni sociali, lingua, ecc … . Ma questi bambini probabilmente riusciranno comunque, e nonostante il tipo di impostazione didattica.
Così i bambini sono in situazione di essere (potenzialmente) più attivi (produttivi) in quanto si ritrovano a lavorare con schede meglio adattate al loro livello. Certamente però quel apparato di differenziazione non interroga automaticamente l’incedere del soggetto, non lo mobilità ad uscire da una sfera essenzialmente esecutiva. E se lo interroga lo fa solo marginalmente al fine di piegarne le resistenze …

Pro o contro la differenziazione? Non é questo il problema. In sé i programmi differenziati possono essere un buon strumento di lavoro. Tutto dipende dall’uso concreto e dal contesto. Il problema a sapere che tratto é piuttosto il seguente. La presenza di questi itinerari dovrebbe permettere un grande sviluppo della classe relativamente gli apprendimenti delle tecniche e delle esercitazioni. Far lavorare meglio gli allievi e il maestro, per dirla in poche parole. Ma perché la presenza di questi itinerari invece di liberare energie per il ricupero della relazione portano il docente e gli allievi a trincerarsi dietro le schede? Perché questi itinerari diventano il paradigma stesso dell’insegnamento invece che rappresentare solamente una parte, ristretta, dello stesso (cfr. il mio Differenziazione dei programmi …).

Terzo

La ricerca pedagogica e la quotidianità didattica, vengono vieppiù a proporre una mescolanza, una confusione, una sovrapposizione, un intreccio procedurale tra soggetto epistemico e operatività procedurale normativa.
Quella che era una narrazione, una lettura, una punteggiatura dell’interazione soggetto-oggetto (realtà), infine diventa dottrina. Quelle che in origine erano osservazioni e conoscenze di tipo epistemologico genetico, in psicologia, in psicopedagogia, in pedagogia e in didattica si trasformano e si presentano sotto una veste cognitivista, meccanicista.

Vale a dire ciò che era un progetto locale di descrizione e di modellizzazione di uno specifico problema legato allo sviluppo delle conoscenze – il soggetto epistemico – viene spacciato per modello dello sviluppo del bambino e dulcis in fundo – peggio ancora – del suo modo privato, specifico e soggettivo di essere. Il ragazzo é spersonalizzato, é alienato dalla sua relazione con l’adulto, lo sviluppo del ragazzo e ridotto alla genesi di conoscenze. I meccanismi del pensiero, e della cognizione sono confusi con i suoi prodotti, i prodotti del pensiero sono confusi con il programma, il programma con le conoscenze presentate nelle schede, negli esercizi o nelle immagini da memorizzare. Assistiamo dunque a una doppia meccanicizzazione:
– della epistemologia,
– della relazione.

Quale la funzione dei ritmi differenziati di lavoro? Una immagine sorvola costantemente questa realtà. E’ quella dei ritmi di produzione differenziati, quella dei tassi di crescita … Facile annusare la puzza dei paradigmi economicisti che subdolamente vengono ad invadere la pedagogia e la scuola senza che nessuno quasi se ne accorga. Altro che imparare ad imparare! Il concetto di differenziazione introduce la globalizzazione di un nuovo paradigma pedagogico: dal sogno della pedagogia cooperativa degli anni 60 e 70 siamo infine giunti alla realtà della produzione individualistica, le realtà dei modelli neo-behaviorsiti e neo comporamemntali degli stessi anni … Questo il fulcro. In verità l’idolatria della differenziazione copula con le tradizionali esigenze della valutazione scolastica. Differenziazione, valutazione e selezione interagiscono magnificamente fra loro. Non potremo più accusare la scuola di essere un organismo di selezione.

L’interazione fra:
– epistemologia genetica,
– differenziazione pedagogica,
– individualismo pedagogico,
– approccio delle competenze,
– valutazione dei sistemi scolastici
in un mondo sempre più egemonizzato dal neo-pensiero unico reificano le differenze di sviluppo. “Permettiamo pure ad ogni bambino di funzionare secondo il suo ritmo e le sue esigenze” questo il sogno alla base della differenziazione pedagogica e del rispetto del bambino … ma allora se il bambino impara con un ritmo più lento, chi é il responsabile? Lui o i suoi genitori, la sua cultura o il suo impegno?
S’intravedono subito allora gli intrecci tra differenziazione, l’insuccesso scolastico e il disadattamento. Lo sviluppo di materiali differenziati é un approccio che neutralizza l’insuccesso scolastico (forse) ma che non interviene sul disadattamento (scolastico). Lo neutralizza poiché elimina (apparentemente!) il quadro di lavoro competitivo fra allievi rispetto un programma unico e uguale per tutti … Il bambino funziona al proprio ritmo, non ci sono più asticelle rigide (obiettivi) … Se il bimbo lavora in questo modo non dovrebbe più preoccuparsi del confronto con gli altri … Eppoi il sistema sembra buono perché permette ritmi di sviluppo differenti …
Invece questo quadro competitivo rimane, se non altro perché alla fine dell’anno note, pagelle e bocciature rimangono pur sempre. Anche se non é vero, sembra poi poco competitivo in quanto i bambini sarebbero solo in concorrenza con se stessi; invece li condanna a lavorare da soli, riducendo le occasioni di scambio comunicativo, di argomentazione e co-costruzione (a questo proposito cfr. il mio articolo Differenziazione dei programmi e prossimalità dell’apprendimento).
In questo contesto non é dunque più la scuola che seleziona, é l’individuo che non funziona (sig!), che funziona a rilento o a ritmo alternato. Già, adesso ognuno lavora individualmente, al proprio ritmo …

Si trova un posto per ognuno, come sulla nave: un posto di comando, cambusa, mozzo, macchinista, ecc … dunque si fa funzionare l’apparato (la nave). Non si fa evolvere il bambino. La pedagogia della differenziazione neutralizza l’insuccesso perché trova un posto per ognuno su quella nave. Risolve i problemi della nave che funziona, che viaggia. Non é certamente una garanzia sufficiente all’evoluzione degli individui. Però ne determina e sviluppa l’autonomia … pardon il funzionamento!

Nota finale

A Gingi Sangalli (Portoferraio, Isola d’Elba) vanno i miei sentiti ringraziamenti, per le sue pertinenti e tenaci osservazioni e domande.

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Note

1 A questo proposito basti poi pure ricordare la questione dell’apprendimento detto informale, apprendimento che si fa all’infuori delle strutture scolastiche, e dello sviluppo esponenziale dell’offerta di corsi ed attività culturali e socializzanti per occupare il tempo libero dei ragazzi (per approfondire la questione di come il riconoscimento dell’apprendimento informale e porti un attacco frontale al diritto alla formazione cfr. il mio Il diritto alla formazione fra pubblico e privato. Uguali opportunità per tutti?). torna al testo

2 E’ l’amara esperienza vissuta da alcuni allievi (e relativi docenti), quando, passando dal livello scolastico primario a quello secondario, gli allievi non ritrovando più il medesimo concreto, fisico e relazionale apparato didattico – uno schedario matematico differenziato, da eseguire per lo più individualmente – non sapevano più come operare. Ben inteso, certamente sapevano ancora calcolare, ma ciò che mancava loro completamente era la medesima “postazione matematica” (medesimo schedario, medesime modalità, medesima presentazione delle schede, medesima formattazione), dove potessero ritrovarsi sul piano operativo. Cambiato l’apparato non sapevano più come procedere. torna al testo

3 Teoria secondo cui la percezione si configura come una totalità strutturata, un insieme unitario, e non come un insieme di elementi isolati. torna al testo

4 La depurazione delle questioni di giustizia sociale, nella letteratura ufficiale, viene pure attuata alle dimensioni pubblica e privata delle varie offerte formative (scuola pubblica, scuola e corsi particolari privati). Oggi si parla di “apprendimento formale” rispettivamente di “ apprendimento informale” (cfr, Lessico di pedagogia, G Galli, N. Hirtt, voce Formale – non formale (Pubblico – privato) torna al testo