Giocare fa bene, giocare fa crescere, giocare fa pensare. Qualche dritta per giocare con i pensieri …
Introduzione
Ecco quanto succede qualche volta alla scuola primaria.
– “Non siamo qui per giocare!” – urla il maestro agli allievi in classe.
Quante volte abbiamo sentito questa frase? Quante volte il docente ha creduto di perdere tempo, quando l’allievo indisciplinato (si fa per dire) lo interrompe con delle battute fuori programma o con la disattenzione? In verità è un dire che manifesta imprecisione. Almeno dal punto di vista dell’insegnante, in quanto così dicendo crede che il suo programma di matematica, per il quale richiama i bambini con quella esclamazione, si possa portare avanti solo ignorando il gioco. E quindi che la matematica sia qualcosa di palloso.
In verità la matematica può essere condotta proprio sulla via del gioco, e in ogni caso tanto più i bambini hanno fatto esperienza di gioco tanto più potranno addizionare e sottrarre emozioni per risolvere i problemi (matematici, ma non solo!). E nelle scuole dell’infanzia?
In verità, quell’espressione è figlia di una idea sbagliata. Un’idea che dice:
giocare = perdere tempo = non è cosa seria = non è cosa vera, = notasi bene! cosa che fanno solo i bambini, … come se il gioco fosse una attività inutile e infantile.
Come dire: “si tanto l’asilo non è importante perché lì si può anche giocare”. Insomma un rinsecchito apprezzamento per il lavoro svolto dalle operatrici della scuola dell’infanzia, e nemmeno un grande apprezzamento per quella età!
Invece giocare, il gioco, é la base stessa dello sviluppo cognitivo, dello sviluppo culturale, dell’apprendimento sociale e della conoscenza di sé. Il giocare, la “celia” non ha minor valore della cosa seria, non ne é assolutamente inferiori. Anzi il giocare è da considerare una cosa molto seria, e molto importante; qualcosa di più di un passatempo, e ancor più importante del lavoro.
Quell’espressione poi potrebbe diventare grave perché potrebbe significare:
– “non siamo qui per imparare”,
– “non siamo qui per essere liberi”,
– “non siamo qui per costruire la nostre rappresentazioni del mondo”.
Il gioco, che sia, fisico, motorio, simbolico, sociale, di costruzione, di regole, ecc … è una rappresentazione. Una “pièce teatrale”, dove il soggetto si racconta, attraverso un medium (lego, meccano, plastilina, ecc…):
– nel suo stare con il mondo,
– nel suo stare per il mondo,
– nel suo stare nel mondo.
Ebbene…
Come parlare di gioco… scrivere di gioco in poche righe… senza giocare? Come mettere in gioco, appunto, delle conoscenze, le nostre conoscenze, per un progetto di trasformazione, quale è quello educativo?
Alla fine di queste righe, se vorrete potrete allora avviare un gioco, un gioco del pensiero; suscitando un desiderio, anche se solo sfiorato, speriamo mai perso, ben vivo e presente nel nostro lavoro quotidiano? Prima di giocare però s’impongono una premessa, e poi pure qualche breve approfondimento teorico.
Premessa
Del gioco si potrebbero dire molte cose: dai tipi di gioco alle teorie del gioco, dalle situazioni concrete dove a scuola si fa e si lascia giocare (il come quando e perché si gioca, o non si gioca a scuola) alla storia del gioco, la bibliografia e le occasioni di osservazioni sono innumerevoli.
Le teorie psicologiche e pedagogiche ci propongono poi tutta una serie di concetti, una serie di scuole con accenti più o meno neo-cognitivisti, evolutivi, analitici, eccetera … Una serie di bilance stanno poi a indicare percorsi e pesi alterni tra:
– gioco spontaneo o gioco diretto,
– gioco individuale o gioco di gruppo,
– gioco simbolico e gioco di regole;
contrapposizioni che vengono ad abitare le nostre implicite prassi ludiche.
In questo mare non sempre è facile governare. Vi ricordate della fine di Lucignolo e Pinocchio?
Chiediamoci quante volte abbiamo accordato, nella nostra quotidiana didattica, un valore assolutamente centrale al gioco, quale vettore di crescita del pensiero. E poi, chiediamoci, quante volte, abbiamo pensato che il gioco non è cosa seria, che il gioco non sa cosa farsene della concentrazione e della attenzione… E poi chiediamoci quante volte abbiamo detto “non siamo mica qui per giocare”… Eppure tutta la psicologia concorda nel dire che giocare = apprendere, che non si apprende senza giochi. Provate voi ad interrompere due bambini che giocano.
L’apprendere non è un gioco? Giocare non è apprendere?
Approfondimenti
In questo mare desidero sottolineare come il gioco e il suo avvento sia strettamente collegato a uno snodo evolutivo fondamentale e fondante: il passaggio dal pensiero senso-motorio al pensiero operatorio. In questo passaggio l’avvento del pensiero simbolico è fonte e causa di avvenimenti assolutamente ricchissimi.
I legami e la distinzione fra significante e significato da un lato e fra percezione e rappresentazione dall’altro sono lì ad indicare tutta la ricchezza di trasformazione del gioco, tutta la sua intelligenza e tutta la sua potenzialità.
E quali sono le caratteristiche del pensiero a quattro-cinque anni? L’età di cui ci occupiamo? Per Piaget l’apogeo del gioco simbolico si situa proprio attorno a quest’età.
1) percezione: nella prima infanzia la percezione “non è in generale un movimento autonomo, ma il motore iniziale della relazione motoria-affettiva” (L. Vygotskij, Immaginazione e creatività, Editori Riuniti, 1990, pag. 129). Vale a dire: il bambino percepisce qualcosa e reagisce in base a una dinamica percezione-reazione diretta. Nel gioco invece tale dinamica perde il carattere impulsivo. Il bambino incomincia ad agire indipendentemente da ciò che vede o percepisce. “L’azione in una situazione che non si vede, ma che si pensa, l’azione in un campo immaginario, in una situazione fittizia, porta al risultato che il bambino impara a determinare il proprio comportamento non soltanto con la percezione diretta di una cosa o con una situazione che agisce direttamente su di lui, ma anche con il seno di questa evoluzione” ( Ibidem, pag. 129). “In sostanza l’attività in una situazione fittizia libera il bambino dalla costrizione della situazione reale” (Ibidem, pag. 128).
Nell’età infantile vi è una sorta di aderenza tra campo visibile e campo semantico. Non c’é divario possibile. Come ricorda Vygotskij, frasi come “la neve è nera” non sono possibili. La lingua serve piuttosto come sostituto diretto adesivo, descrittivo della realtà… In verità il campo semantico deve staccarsi da quello visivo. Il linguaggio da imperativo e descrittivo deve evolvere verso altre funzioni che non siano solo quelle primitive (Wittgensteim). Nel gioco l’azione si stacca dal significato originario di un oggetto. L’azione proviene dal pensiero e non dall’oggetto. Separare il pensiero dalle percezioni, separare il pensiero dagli oggetti circostanti è una cosa terribilmente difficile per molti, non solo per i bambini in età prescolare. Nel gioco, nel gioco simbolico, ciò diventa possibile, almeno per la prima volta nell’evoluzione del bambino. Il bambino prende un bastone per farne il suo cavallo. Opera una sostituzione di significanti. Assimilando (piegando) a sé la realtà attua una affermazione di sé. Parte da qualcosa di interiore, un desiderio, una pulsione, un sogno …
Mettiamo il cavalcare.
• Vedo un cavallo: penso “si può cavalcare”. Questo è il meccanismo diretto della percezione. Prendo un bastone e fingo un’eroica cavalcata. Questo è un meccanismo del pensiero (e del desiderio) fattosi azione.
Prima: vedevo un cavallo e pensavo a cosa posso farci (il senso viene dopo la percezione esterna).
Adesso: desidero cavalcare e quindi immagino di cavalcare a cavallo di un bastone (il senso viene
prima della sua realizzazione esterna tramite il bastone-cavallo).
• Vedo un cavallo: lo nomino. Dal significato al significante, sotto una sua forma sonora.
Questa è una funzione del linguaggio: la sostituzione della realtà (fisica) con una sua denominazione.
• Prendo un bastone: lo nomino “cavallo”. Opero una sostituzione di significante, da quello semantico a quello fisico. O meglio: ho adesso due significanti: uno sonoro e uno fisico con un medesimo significato: quello legato al cavallo e al cavalcare.
C’è quindi una sostituzione e transitività fra significanti di varie forme. Il significato si distanzia (vieppiù) da un unico significante, subordinando quest’ultimo alla evoluzione di un pensiero-affetto.
Qui la funzione del linguaggio non è più solo denominativa. Serve ad esprimere i propri desideri (cavalcare) e il proprio fare. Ha quindi una dimensione metacognitiva, direi quasi operatoria. O meglio: invece di descrivere la realtà descrive la propria azione.
• Ma il distacco semantico fra parola e cosa non è l’ultimo.
Il gioco rende possibile pure il distacco tra l’azione e il suo senso. Quando l’azione non è adesiva, non si risolve al suo solo aspetto motorio, ma per il senso ulteriore che essa denota. L’azione, come dice Vygotskij, diventa un punto sul quale appoggiare il senso. Un’azione ne sostituisce un’altra, come un significante ne sostituisce un altro. Prendere un bastone e metterlo fra le gambe diventa segno del cavalcare. L’azione diventa essa stessa un significante …
Separare, staccare la percezione dall’oggetto: questo è rappresentazione. Il gioco lo permette, lo
favorisce, lo rinforza. Questo è pensiero.
L’anatomia del gioco è la chiave di comprensione dell’anatomia del pensiero.
2) Il gioco simbolico
Con questa attività il bambino assimila a sé la realtà che incontra. Si contrappone quindi ad un adattamento, richiesto dall’ambiente, in termini di trasformazione di se stesso e di adeguamento alle
richieste esterne. Le richieste sociali, in genere, sono considerate inadeguate rispetto i bisogni e alla
loro espressione del bambino. Lo spazio del gioco (simbolico, ma non solo) diventa quindi un luogo
importante dove il bambino assimila a sé la realtà senza costrizioni e condizionamenti.
Per Piaget è indispensabile che il bambino possa ricorrere a un suo sistema di significanti, un sistema personale e soggettivo, un sistema docile ai suoi voleri e ai suoi desideri. Un sistema cangiante e che permette al bambino di evocare. Probabilmente questo luogo si avvicina allo spazio che Winnicott definisce transizionale, perché è luogo di incontro e scambio tra il bambino e la realtà. Winnicott, ha coniato l’espressione oggetti transizionali per quel tipo di giocattoli o cose (coperte, foulard, ecc…) dai quali il bambino sembra trarre un senso di sicurezza immediato, paragonabile per certi versi alla sicurezza esperita nei futuri rapporti affettivi interpersonali.
L’evocazione è il punto centrale. Da un punto di vista cognitivo, vede il bambino attivo, produttore di significanti, quindi di sostituti rappresentativi di oggetti o fenomeni concreti. E’ l’agire di questi sostituti, di queste evocazioni, che mette il bambino in grado di dominare la realtà e di costruire un suo proprio sistema di rappresentazioni, come pure di rappresentazioni concrete.
L’evocazione mobilita poi sovente conflitti inconsci che attraverso il gioco vengono eliminati.
Fobie, interessi sessuali, aggressività, ansia …
Il gioco compensa poi bisogni insoddisfatti. E’ quindi una vicenda di costruzione e rafforzamento dell’Io.
Ed infine ecco il gioco
Prendete le coppie:
– “significante – significato”,
– “percezione – rappresentazione”,
e i lemmi seguenti,
– “apprendimento”,
– “reazioni circolari”,
– “funzionamento senso motorio”,
– “pensiero simbolico”.
Ed eventualmente anche
– “pensiero operatorio”, il successivo punto di arrivo, a sei-sette anni, dello sviluppo cognitivo. Ecco allora un primo gioco, un gioco del caso.
Fatene dei bigliettini, metteteli nell’urna, estraetene a sorte due.
Fatto ciò, provate ora ad approfondire la conoscenza dei lemmi che vi sono spettati, fatene una ricerca, … se non altro esplicitate chiaramente ciò che sapete.
Provate poi a tessere i legami concettuali che vengono a proporsi fra questi stessi lemmi. Fate delle ipotesi, proponete dei percorsi che portino da uno all’altro termine. Anche qui approfonditene la conoscenza esplicitando ancora chiaramente ciò che sapete. Ecco un gioco della mente.
Bene, fatto questo, quando vi siete chiariti ed esplicitati i vostri pensieri, i vostri dubbi, quando avrete approfondito e rafforzato i legami concettuali del vostro sapere, proponete un gioco, o inventate un gioco. Un gioco che possa essere proposto ai vostri allievi.
Ma attenzione: non un gioco qualsiasi, bensì un gioco che vi permetta di governare la coppia di termini che vi sono toccati. Un gioco che si ponga come ipotesi e come progetto educativi da stimolare e verificare.
Ecco. C’è ancora chi crede che il gioco non sia pensiero? Che sia tutta caciara e niente altro?
Quando il gioco finisce
Quanta gioia intravediamo nel sorriso della bimba che cavalca il suo cavallino (è ancora molto piccola, non ha l’età della scuola dell’infanzia). In quel sorriso, quali e quante funzioni possiamo immaginare, prefigurando l’età della scuola dell’infanzia?
Quella della scarica motoria, del gioco motorio. Certamente. Ma poi quella dell’immaginazione, in una supposta epica, grandiosa cavalcata. L’oscillazione fra motricità e pensiero, l’oscillazione fra scarica motoria e creazione immaginaria, l’oscillazione fra realtà interna e realtà esterna … ecco l’immagine che propongo quale stringatissima sintesi.
In verità giocare è qualcosa di sregolante, qualcosa che sfugge, qualcosa che propone un territorio dell’incerto. La scuola può giocare? Perché un gioco non è finalizzato, un gioco finalizzato è un po’ come tradire il gioco.
Un gioco ha le sue regole, i suoi giocatori. Un gioco non può essere controllato. Se no è truccato. Allora diciamo che: la scuola non è un gioco, ma può mettersi in gioco e qualche volta può pure giocare: ma ogni gioco ha un tempo che ha una fine e ha uno spazio che è delimitato.
Il presente articolo è stato pubblicato ne:
Ambientinfanzia anno 1° n°5 gennaio 2009