A che gioco giochiamo?

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Si sa con quale profitto le nazioni scrivano la propria storia. Lo stesso profitto lo trae anche l’individuo singolo che scriva la propria storia. Me-ti diceva: Che ognuno divenga il suo proprio storiografo, allora vivrà con maggiore cura e maggiori esigenze.


-B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte.

Introduzione

Sognare il sogno impossibile
Combattere contro il nemico invincibile
Sopportare una pena intollerabile
Correre dove l’audace non osa andare
Riparare un danno irreparabile
Amare, puro e casto, da lontano
Tentare quando la stanchezza mi prende la mano
Raggiungere la stella irraggiungibile
Questo è il mio scopo …


Don Chisciotte

Due sono gli approcci possibili che abbiamo ritenuto utili al fine di presentare la nostra personale ricerca sul gioco e il giocare, in relazione con la prassi quotidiana del sostegno pedagogico. In un primo momento per ogni operatore si tratta di capire la natura del gioco infantile e quindi approfondisce le proprie conoscenze, tramite delle letture e delle osservazioni. In un secondo momento si tratta però di capire quale gioco conduciamo noi, nel nostro quotidiano operare: il gioco del bimbo e il gioco dell’operatore, dunque questo l’oggetto del nostro peregrinare. Se il gioco del bimbo è facilmente iscrivibile in una prospettiva evolutiva, non di meno due sono gli approcci che dobbiamo ritenere: quello cognitivo (con l’evoluzione e  le tappe del gioco) e quello dinamico, relazionale …Invece il gioco dell’operatore appare sovente meno chiaro, dipende molto dalla sua weltaunschaung (sovente implicita, intuitiva e poco riflessa).Noi partiamo da questa affermazione: il contesto del sostegno pedagogico, come del resto qualsiasi contesto di relazione, è un contesto simbolico. Il luogo del sostegno è un luogo simbolico ad alto valore. Ma: in primo luogo non sempre si è in chiaro su questa verità; e, in secondo luogo, meno ancora si è in chiaro, sul significato concreto di tale contesto e sulle sue variazioni nei vari approcci psico pedagogici didattici adottati dagli operatori. Dicevamo due approcci:

  1. la storia racconta il perché siamo arrivati al gioco e al giocare, quale è stata la concatenazione logica o associativa che ci ha condotti un passo dopo l’altro,
  2. la mappa ci indica quali sono i nodi concettuali e operatori per il nostro quotidiano operare.

Non tratteremo invece in maniera specifica e sistematica dei giochi e dei giocattoli. Alla fine sarà presentata una bibliografia. Facciamo notare che nel cantone Ticino le scuole elementari durano 5 anni. La scolarità comincia a sei anni.In questi ultimi anni, il sostegno si occupa mediamente del 12-14% della popolazione scolastica totale. Basti questo numero a far capire come il sostegno, in Ticino, si occupa delle varie forme di insuccesso e disadattamento scolastico in generale. Quindi di difficoltà di apprendimento sotto le sue forme di disturbi specifici (es. dislessia) e non specifici (es. deprivazione socio-culturale). E non, come in Italia, dei “soli” (mi si passi il termine) deficit sensoriali e genetici, quali la cecità, la sordità, trisomia ecc … Del resto, ogni qual volta che usiamo il termine di sostegno, avremmo dovuto usare quello di apprendimento. Se non l’abbiamo fatto è solo perché la nostra esperienza, il nostro campo di gioco, è propriamente situato nel sostegno. Se ne ricordi il lettore; perché in verità se di sostegno scriviamo, di apprendimento trattiamo.

Parte prima

1) La storia

Le favole dove stanno?
Ce n’è una in ogni cosa:
nel legno, nel tavolino,
nel bicchiere, nella rosa.
La favola sta lì dentro
da tanto tempo, e non parla:
è una bella addormentata
e bisogna svegliarla.
Ma se un principe, o un poeta,
a baciarla non verrà
un bimbo la sua favola
invano aspetterà.


-Gianni Rodari

Perché siamo arrivati al gioco e al giocare? 

Prima spinta

“Non siamo qui per giocare!” Urla il maestro agli allievi in classe. Quante volte abbiamo sentito questa frase? Quante volte il docente ha creduto di perdere tempo, quando l’allievo indisciplinato (si fa per dire) lo interrompe con delle battute fuori programma o con la disattenzione?In verità è un dire che manifesta imprecisione. Almeno dal punto di vista dell’insegnante, in quanto così dicendo crede che il suo programma di matematica, per il quale richiama i bambini con quella esclamazione, si possa portare avanti solo ignorando il gioco. E quindi che la matematica sia qualcosa di palloso.
In verità la matematica può essere condotta anche proprio sulla via del gioco, e in ogni caso tanto più i bambini hanno fatto esperienza di gioco tanto più potranno addizionare e sottrarre emozioni per risolvere i problemi (matematici e non solo). 
Questa espressione è figlia di una idea sbagliata. Espressione grave e gravida di contenuti mostruosi, tipo:
giocare = perdere tempo,
giocare = non è cosa seria,
giocare = non è cosa vera,
giocare = cosa che fanno solo i bambini,
… come se il gioco fosse una attività inutile e infantile.
Invece giocare, il gioco, é la base stessa dello sviluppo cognitivo, dello sviluppo culturale, dell’apprendimento sociale e della conoscenza di sé.Il giocare, la “celia” non ha minor valore della cosa seria, non ne é assolutamente inferiori. Anzi in questo senso il giocare è da considerare una cosa molto serio, e molto importante; qualcosa di più di un passatempo, e ancor più importante del lavoro. 

L’espressione potrebbe diventare grave perché potrebbe significare:
“non siamo qui per imparare”,
“non siamo qui per essere liberi”,
“non siamo qui per costruire le nostre rappresentazioni del mondo”.
Il gioco, che sia, fisico, motorio, simbolico, sociale, di costruzione, di regole, ecc … è una rappresentazione. Una pièce teatrale, dove il soggetto si racconta, attraverso un medium (lego, meccano, plastilina, ecc…):
nel suo stare con il mondo,
nel suo stare per il mondo,
nel suo stare nel mondo. 
“E’ nata così l’idea di costruire un percorso che dalle teorie del gioco potesse ricondurci alla prassi del saper giocare, del saper far giocare, ma soprattutto del saper ascoltare e decodificare i significati sottesi all’attività ludica, rifuggendo dalla facile tentazione di nascondersi dietro un uso intuitivo del gioco, sovente esaltato in chiave “tecnicista”, oppure svalutato per la sua pretesa “naturalità” (op. cit. Gioco e simbologia degli affetti, p. 13). 

Seconda spinta

“Le ipotesi e le ricerche finora descritte tendono a confermare le osservazioni e il ruolo di primo piano che Piaget ha attribuito al gioco, considerandolo appunto come uno spazio fondamentale nella vita del bambino, che gli consente di assimilare l’esperienza ai propri schemi mentali. Secondo Piaget è possibile individuare tre principali stadi del gioco, che si manifestano in una particolare progressione temporale:
– il gioco d’esercizio, che si colloca nel periodo senso-motorio e consiste nella ripetizione, finalizzata al puro divertimento, di attività acquisite altrove a scopo di adattamento;
– il gioco simbolico, che segue il gioco d’esercizio e si situa tra i due/tre anni e i cinque/sei anni d’età;
– i giochi con regole, che vengono trasmessi socialmente e aumentano di importanza con il progredire della vita infantile.
Il gioco simbolico, nel pensiero piagetiano, rappresenta l’apogeo del gioco infantile, il momento di massima significatività delle funzioni stesse del gioco. In generale, le richieste del sociale nei confronti del bambino costituiscono un elemento di pressione adattativa, che rende il contesto ambientale del tutto inadeguato a consentire l’espressione dei bisogni e delle necessità del bambino. L’unico spazio di attività scevro da tali tensioni è appunto il gioco” (op. cit. Gioco e simbologia degli affetti, p. 33). 

Per noi la ricerca sul gioco viene ad inserirsi su di un sentiero precedentemente percorso. Più precisamente, ci eravamo chinati sulla resistenza del pensiero senso motorio a scuola, e sull’insorgere (o non) di tappe più evolute, quali il pensiero operatorio. Come mai un bambino rimane dentro a un modello di funzionamento senso motorio e lì ci sta? Cosa gli manca per riuscire a passare oltre? Per riuscire a costruirsi delle immagini? A ragionare sulle proprie azioni?Come mai preferisce lambiccarsi sulla ripetizione di pattern esecutivi, piuttosto che avventurarsi in un contesto operatorio?
La mancanza di un’assimilazione personale, la mancanza d’immagini, la limitatezza delle rappresentazioni elaborate dall’allievo, o l’iperadattamento alle richieste ambientali (la scuola) erano il filo conduttore delle difficoltà descritte. Bambini bloccati al gioco motorio … 

Tra il funzionamento senso-motorio a scuola e il funzionamento operatorio ci mancava un collegamento, ma un collegamento pratico più che teorico. E’ così che il gioco veniva, in un certo senso, ad assolvere questa funzione. Ci sembrava una buona pista di rollaggio, dove provare sul terreno situazioni che permettessero al bambini di variare i loro approcci, di costruire immagini … dove fare esperienza (e qui parliamo di noi) e vedere, scoprire come aiutare i bambini ad oltrepassare i modi di funzionare senso-motori. 

Chiedevamo: come mai un bambino rimane dentro a un modello di funzionamento senso motorio e li ci sta? Una prima risposta è la seguente. Un bambino rimane ancorato a quel modo di funzionamento perché a dominare è appunto il funzionamento dell’esercizio, nel senso che l’esercizio è l’esperienza della ripetitività. E dentro alla ripetitività puoi non pensare. L’esercizio della ripetitività è dunque un funzionamento che non presuppone (o sarebbe forse meglio dire non persegue) il pensiero.E la scuola per tali bambini si presenta come un luogo – attraverso le sue schede e i suoi schedari – dove apprendere delle tecniche (leggere scrivere, far di calcolo) che si ripetono, da ripetere meccanicamente senza mai sorprendersi … 

Mettiamo per esempio, l’esecuzione mentale di calcoli entro il 100 in tutte le variazioni possibili, l’addizione/sottrazione di unità e/o decine con o senza passaggio di decina. Qualcuno diceva: “l’automatizzazione e la memorizzazione di pattern esecutivi  libera il pensiero, perché quando non si deve più pensare all’algoritmo dell’addizione e alle sue somme parziali in ogni suo passo, quando tutto ciò avviene automaticamente, in verità la mente è libera di pensare a qualcosa d’altro”.In verità, la “mente”, sino all’automatizzazione avvenuta delle sequenze rimane inchiodata a quella “esegesi”. E malgrado ciò la “mente” può pensare a qualcosa d’altro.
Malgrado l’implicita proibizione, pensa a qualcosa d’altro (per fortuna) ma veramente  d’altro, e per questo forse non riesce a memorizzare ed automatizzare le sequenze.
Oppure: forse che i bimbi della scuola dell’infanzia non sono liberi di pensare e non pensano perché non hanno ancora fatto l’esercizio dell’automatizzazione l’esercizio per l’automatizzazione dell’algoritmo dell’addizione?
“La ripetizione è l’esatto opposto del gioco. Il gioco inventa, crea, trasgredisce, esplora e rinnova, cambia le carte in tavola” (Bencivenga, op. cit. pag. 43). 

Il gioco è quindi un luogo per eccellenza dello sviluppo del bambino, della evoluzione, dello sviluppo, o transumanza (che dir si voglia) dal pensiero senso motorio:
– al simbolo, alla astrazione, alla rappresentazione, come pure
– all’azione, alla soggettività, come pure
– alla gestione dell’ansia e del desiderio. 

Il gioco permette al bambino la gestione:
– dei (suoi) errori,
– il controllo delle proprie azioni,
– la loro variazione in nuove sequenze.
E’ dunque una fondamentale attività di esplorazione. Per questo riteniamo che sia uno strumento fondamentale della valigetta di pronto intervento pedagogico. 

Il ricorso al gioco si giustifica da un punto di vista cognitivo ed uno emotivo (dinamico).Si osserva che:

da un punto di vista cognitivo:da un punto di vista dinamico:
  • il bambino assimila a sé, costruisce un proprio sistema di significanti, soggettivo e docile ai propri voleri;
  • il gioco, il saper giocare è direttamente correlato con la creatività e con l’apprendimento (vedi Hutt C. in Bruner);
  • i bambini imparano meglio e più rapidamente a risolvere problemi se precedentemente hanno potuto utilizzarne i materiali su di un piano ludico (V. Bruner);
  • creare situazioni fittizie sempre più complesse e strutturate porta allo sviluppo del pensiero astratto;
  • il gioco simbolico è l’apogeo del gioco infantile;l’esperienza ludica diventa un terreno dove provare, “sbagliare”, variare le proprie sequenze d’azioni in un contesto libero di continue re-invenzioni;
  • il gioco è una spinta alla variazione;lo sviluppo del gioco va dal gioco d’esercizio, a quello simbolico, a quello di regole, da quello individuale a quello sociale;
  • il gioco è fonte di sviluppo e crea l’area di sviluppo potenziale (Vygotskij)
  • Il gioco è una attività fondamentale per quanto concerne la gestione dell’ansia. In effetti nelle sue variazioni, nei suoi tentativi, nelle sue fantasie ecc … da all’errore uno statuto che non rientra in un contesto competitivo, educativo, ecc …;
  • il gioco è l’unico spazio d’attività in cui viene concessa al bambino piena autonomia dal mondo degli adulti. Il processo di continuo adattamento del bambino al mondo degli oggetti è fortemente ansiogeno e conflittuale, poiché rimanda ad ogni istante, la valutazione del sé, della propria capacità ed adeguatezza a figure esterne che decidono per lui del suo valore e delle sue possibilità:
  • il giocare è una vicenda d’integrazione dell’Io, questa istanza psichica costantemente mediatrice tra le spinte pulsionali interne e le componenti superegoiche interiorizzate e il mondo esterno;
  • l’Io infantile necessita di un luogo di rappresentazione delle proprie difficoltà in cui liquidare le tensioni che lo abitano: il gioco consente al bambino di diventare padrone unico e assoluto della realtà, assumendo un ruolo attivo che gli consente l’affermazione di sé e delle proprie esigenze di controllo sul mondo.

Terza spinta

A questo punto pensando al gioco e al giocare, si poteva provare a giocare con i bambini. Ma come giocare in un contesto che è di sostegno e non di terapia?
Considerando che il gioco simbolico è l’apogeo, il massimo, si poteva immaginare un setting di lavoro ri-educativo che avesse a che fare con il gioco simbolico? E se di questo si trattava le proposte che venivamo a fare ai nostri utenti potevano rivestire un interesse per loro stessi?Considerando l’importanza centrale a tutti gli effetti del gioco, importanza per lo sviluppo e la creazione cognitiva, come pure per la crescita emotivo-relazionale, considerando la sintomatologia di molti utenti del sostegno, la clinica del disagio scolastico, il gioco del sostegno non deve forse essere quello di sostenere il gioco? 

E’ qui che abbiamo cominciato a differenziare diversi livelli del gioco e in particolare del gioco simbolico.

  1. il gioco vero e proprio, quello che i nostri allievi possono sviluppare da soli o con noi, con l’utilizzazione di vari medium,
  2. gli elementi simbolici (o non) dei giochi giocati, vale a dire forse non tutti i giochi si equivalgono, alcuni sono più ricchi altri meno e così via,
  3. l’aspetto simbolico (generale) del nostro fare. La domanda è il sostegno può essere un gioco, un grande gioco come quello dell’imparare. Lo spazio del sostegno è non é uno spazio simbolico? Se si in quale maniera attivarlo? 

Se a livello pratico si tratta di considerare quali sono o possono essere gli strumenti ludici del sostegno, cosa, e quando giocare, a un livello generale va definito l’aspetto simbolico del luogo sostegno (non è una chiesa, non è una aula come le altre, non è un municipio, ecc … e in questo e per questo è simbolico. Ma forse questo luogo simbolico, lo è soltanto nella nostra definizione, o nella nostra immaginazione o nel nostro desiderio, non lo è automaticamente altrettanto per l’allievo che vi entra. 

Quarta spinta

Alcuni giochi che abbiamo utilizzato, sia che questi abbiano avuto una struttura prevalentemente simbolica, logica o di regole, ci hanno spinto a voler riflettere maggiormente sulla loro potenza al di là di una loro utilizzazione estemporanea.
E’ evidente lo scotto che pagano in un contesto rigido e artefatto strumenti di lavoro difficilmente strumentalizzabili. Ciò vale per i giochi come pure per il disegno. Vediamo come il gioco venga considerato fenomenale veicolo di crescita, ma relegato in contesti di realizzazione secondari, demotivanti, negativamente competitivi, ecc …(quando si è stanchi, o si ha un finito qualcosa). Vediamo come il gioco sia considerato sotto una varietà considerevole di aspetti, ma il suo diritto di vita, nella scuola, è per lo più ridotto. Tramite i cosiddetti giochi didattici, tal volta tristi, veri e propri simulacri dell’intelligenza, si cerca di regolamentare (controllare, inquadrare, limitare) degli apprendimenti che si vorrebbero piacevoli, leggeri (l’idea che il gioco è spensieratezza, futilità, disimpegno) …
I giochi, a parte quelli di regole – ma poi nemmeno quelli, perché ogni partita di Monopoli è differente da quelle precedenti – sfuggono agli schemi ripetitivi. Sfuggono alle epistemologie meccanizzate, dove i percorsi dei bambini devono ricalcare quelli dei docenti. E’ il cemento epistemofilico che manca con il gioco a scuola … 

Fra altre attività ludiche noi abbiamo usato i medium seguenti:Lego, sabbia, le carte, filo a piombo, bilancia, la casa …
A questo proposito vogliamo ricordare brevemente due modalità di interagire e di classificare che due ragazzi hanno manifestato con il materiale DDCP (cfr. Douet).
Si trattava, pur sempre a partire da schede con immagini e fotografie, di operare delle classificazioni, delle generalizzazioni e altre operazioni logiche. L’interesse del materiale però risiede nel fatto che in buona parte è realizzato in maniera logicamente contraddittoria e ambigua, e principalmente carico emotivamente per il contenuto che presenta (immagini di persone in gruppo e isolate, contente o arrabbiate, e così via).
In un contesto argomentativo, accanto a modalità logiche e classificatorie di considerare le consegne e interagire con il materiale, abbiamo potuto sperimentare la persistenza (la resistenza?) di approcci narrativi, che – mal accettando, mal integrando, mal sviluppando, che dir si voglia, un approccio classificatorio – insistevano nella rimozione delle contraddizioni (conflitti?) tramite dei legami associativi. Insomma, invece di operare tramite delle classificazioni, escludendo ciò che non andava, un bimbo, narrava delle storie collegando tutte le immagini tra loro.
Ecco alcuni giochi del pensiero: senza sosta, la nostra osservazione viaggia da un piano logico a un piano associativo, da uno sforzo sintetico e sincronico a uno sforzo narrativo e diacronico (e viceversa).
Mi piacciono le storie …

Intermezzo

Gioco e ludere

Ludere          = giocare, festeggiare.
Col-ludere      = attuare una collisione – giocare insieme, intendersela con qualcuno, accordarsi segretamente con qualcuno per un fine illecito.
Al-ludere       = accennare in modo non esplicito a qualcosa, fare riferimento a qualcosa che non c’é.
Rimandare per via simbolica a un’altra immagine o concetto.
Il-ludere        = ingannare, abbagliare, lusingare con false apparenze o suscitando speranze infondate. Lasciarsi dominare coltivando speranze vane od opinioni erronee
E-ludere        = evitare con astuzia, schivare; sottrarsi con destrezza, specialmente a un impegno, un obbligo, un pericolo. Prendersi gioco.
De-ludere       = venir meno alla attese, alle speranze, ai desideri altrui, prendersi gioco.

Il gioco, la scuola e le culture popolari

il paese dei balocchi

“Questo paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano 14 anni: i più giovani ne avevano 8 appena. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Branchi di  monelli da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno: questi facevano a mosca-cieca, quegli altri si rincorrevano: altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria: chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi. Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: viva i balocci (invece di balocchi): non vogliamo più schole (invece di non vogliamo più scuole): abbasso Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri fiori consimili”.
(Collodi C., Le avventure di Pinocchio, Piemme Junior 1988, pagg. 151-152)

il gioco e i ciuchi

“Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia né un libro, né una scuola, quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa che lo messe proprio di mal’umore”. 
(Pinocchio fine cap. 31, pag. 153)

Capitolo 32: A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco, e poi diventa un ciuchino vero e comincia a ragliare”
E questa sorpresa quale fu?
Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accorse…Indovinate un po’ di che cosa si accorse?
Si accorse con sua grandissima maraviglia che gli orecchi gli erano cresciuti più d’un palmo.
Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita, aveva gli orecchi piccini piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si vedevano neppure!
Immaginatevi dunque come restò, quando si poté accorgere che i suoi orecchi, durante la notte, erano così allungati che parevano due spazzole di padule.
Andò subito in cerca di uno specchio, per potersi vedere: ma non trovando uno specchio, empì d’acqua la catinella del lavamano, e specchiandovisi dentro, vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide, cioè, la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini.
Lascio pensare a voi il dolore, la vergogna, e la disperazione del povero Pinocchio!
Cominciò a piangere, a strillare, a battere la testa nel muro: ma quanto più si disperava, e più i suoi orecchi crescevano, crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima.
Al rumore di quelle grida acutissime, entrò nella stanza una bella marmottina che abitava il piano di sopra: la quale, vedendo il burattino in così grandi smanie, gli domandò premurosamente:
‑ Che cos’hai mio caro casigliano?
‑ Sono malato, marmottina mia, molto malato… e malato d’una malattia che mi fa paura! Te ne intendi tu del polso?
‑ Un pochino.
‑ Senti dunque se per caso avessi la febbre.
La marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso di Pinocchio gli disse sospirando:
‑ Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!…
‑ Cioè?
‑ Tu hai una gran brutta febbre!… 
‑ E che febbre sarebbe?
‑ … la febbre del somaro.
‑ Non la capisco questa febbre! ‑ rispose il burattino, che l’aveva pur troppo capita.
‑ Allora te la spiegherò io ‑ soggiunse la marmottina.
‑ Sappi dunque che fra due o tre ore tu non sarai più né un burattino, né un ragazzo …
‑ E che cosa sarò?
– Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l’insalata al mercato.
‑ Oh! povero me! povero me! ‑ gridò Pinocchio pigliandosi con le mani tutt’e due gli orecchi, e tirandoli e strappandoli rabbiosamente, come se fossero gli orecchi di un altro.
‑ Caro mio ‑ replicò la marmottina per consolarlo ‑ che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino. Oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari.
‑ Ma davvero è proprio così ? ‑ domandò singhiozzando il burattino.
‑ Pur troppo è cosi! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci prima!
‑ Ma la colpa non è mia: la colpa, credilo, marmottina, è tutta di Lucignolo!…
‑ E chi è questo Lucignolo?
‑ Un mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore… ma Lucignolo mi disse: “Perché vuoi tu annoiarti a studiare? perché vuoi andare alla scuola?… Vieni piuttosto con me, nel paese dei balocchi: lì non studieremo più : lì ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri”.
‑ E perché seguisti il consiglio di quel falso amico? di quel cattivo compagno?
‑ Perché?… Perché, Marmottina mia, io sono un burattino senza giudizio… e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai abbandonato quella buona Fata, che mi voleva bene come una mamma e che aveva fatto tanto per me!… e a quest’ora non sarei più un burattino… ma sarei invece un ragazzino ammodo, come ce n’è tanti! Ma se incontro Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio dire un sacco e una sporta! . ..E fece l’atto di volere uscire. Ma quando fu sulla porta, si ricordò che aveva gli orecchi d’asino, e vergognandosi di mostrarli in pubblico, che cosa inventò? Prese un gran berretto di cotone, e, ficcatoselo in testa, se lo ingozzò fin sotto la punta del naso.Poi uscì: e si dette a cercare Lucignolo da per tutto.
Lo cercò nelle strade, nelle piazze, nei teatrini, in ogni luogo: ma non lo trovò. Ne chiese notizia a quanti incontrò per la via, ma nessuno l’aveva veduto.Allora andò a cercarlo a casa: e arrivato alla porta bussò.

‑ Chi è? ‑ domandò Lucignolo di dentro.
‑ Sono io! ‑ rispose il burattino.
‑ Aspetta un poco, e ti aprirò.
Dopo mezz’ora la porta si aprì: e figuratevi come restò Pinocchio quando, entrando nella stanza, vide il suo amico Lucignolo con un gran berretto di cotone in testa, che gli scendeva fin sotto il naso.
Alla vista di quel berretto Pinocchio sentì quasi consolarsi e pensò subito dentro di sé:
‑ Che l’amico sia malato della mia medesima malattia? Che abbia anche lui la febbre del ciuchino?…E facendo finta di non essersi accorto di nulla, gli domandò sorridendo:
‑ Come stai, mio caro Lucignolo?
‑ Benissimo: come un topo in una forma di cacio parmigiano.
‑ Lo dici proprio sul serio?
‑ E perché dovrei dirti una bugia?
‑ Scusami, amico: e allora perché tieni in capo codesto berretto di cotone che ti copre tutti gli orecchi?
‑ Me l’ha ordinato il medico, perché mi sono fatto male a questo ginocchio. E tu, caro burattino, perché porti codesto berretto di cotone ingozzato fin sotto il naso?
‑ Me l’ha ordinato il medico, perché mi sono sbucciato un piede.
– Oh! povero Pinocchio! …
– Oh! povero Lucignolo! …
A queste parole tenne dietro un lunghissimo silenzio, durante il quale, i due amici non fecero altro che guardarsi fra loro in atto di canzonatura.Finalmente il burattino, con una vocina melliflua e flautata, disse al suo compagno:
‑ Levami una curiosità, mio caro Lucignolo: hai mai sofferto di malattia agli orecchi?
‑ Mai!… E tu?
‑ Mai! Per altro da questa mattina in poi ho un orecchio, che mi fa spasimare.
‑ Ho lo stesso male anch’io.
‑ Anche tu?… E qual è l’orecchio che ti duole?
‑ Tutti e due. E tu?
‑ Tutti e due. Che sia la medesima malattia?
‑ Ho paura di sì?
‑ Vuoi farmi un piacere, Lucignolo?
‑ Volentieri! Con tutto il cuore.
‑ Mi fai vedere i tuoi orecchi?
‑ Perché no? Ma prima voglio vedere i tuoi, caro Pinocchio.
‑ No: il primo devi essere tu.
‑ No, carino! Prima tu, e dopo io!
‑ Ebbene ‑ disse allora il burattino ‑ facciamo un patto da buoni amici.
‑ Sentiamo il patto.
‑ Leviamoci tutti e due il berretto nello stesso tempo: accetti? 
‑ Accetto.
‑ Dunque attenti!
E Pinocchio cominciò a contare a voce alta:
‑ Uno! Due! Tre!
Alla parola tre! i due ragazzi presero i loro berretti di capo e li gettarono in aria.
E allora avvenne una scena, che parrebbe incredibile, se non fosse vera. Avvenne, cioè, che Pinocchio e Lucignolo, quando si videro colpiti tutti e due dalla medesima disgrazia, invece di restar mortificati e dolenti, cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente cresciuti, e dopo mille sguaiataggini finirono col dare in una bella risata.E risero, risero, risero da doversi reggere il corpo: se non che, sul più bello del ridere, Lucignolo tutt’a un tratto si chetò, e barcollando e cambiando di colore, disse all’amico:
‑ Aiuto, aiuto, Pinocchio!
‑ Che cos’hai?
‑ Ohimè! Non mi riesce più di star ritto sulle gambe.
‑ Non mi riesce più neanche a me ‑ gridò Pinocchio, piangendo e traballando.
E mentre dicevano così , si piegarono tutti e due carponi a terra e, camminando con le mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe, i loro visi si allungarono e diventarono musi e le loro schiene si coprirono di un pelame grigiolino chiaro, brizzolato di nero.
Ma il momento più brutto per que’ due sciagurati sapete quando fu? Il momento più brutto e più umiliante fu quello quando sentirono spuntarsi di dietro la coda. Vinti allora dalla vergogna e dal dolore, si provarono a piangere e a lamentarsi del loro destino.
Non l’avessero mai fatto! Invece di gemiti e di lamenti, mandavano fuori dei ragli asinini: e ragliando sonoramente, facevano tutti e due in coro: j‑a, j‑a, j‑a.
In quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse:
‑ Aprite! Sono l’Omino, sono il conduttore del carro che vi portò in questo paese. Aprite subito, o guai a voi!
(Pinocchio, pagg. 153-158).

 Entrato nella stanza l’omino che veniva per portar via i due disgraziato disse:”- Bravi ragazzi avete ragliato bene …”

La scuola e il gioco

“Tentativi di collegare il gioco alla scuola sono presenti in diverse epoche, sottoposti al vaglio della cultura del proprio tempo, in funzione di convincimenti etici e morali da trasmettere. Il clima istruttivo risente per lungo periodo dei veti della Chiesa, riguardo al suo considerare il gioco oggetto di distrazione dalla preghiera e dal pensiero di Dio. Ad un utilizzo del gioco come svago e riposo degli studenti delle scuole medievali, fa seguito in pieno Umanesimo l’inserimento consapevole di giochi vari nel curricolo scolastico, destinato all’educazione dei nobili e, quindi, in funzione di un allenamento del capo per uno sviluppo fisico armonico. Tale educazione affidata ai Gesuiti obbliga la Chiesa a concedere qualcosa alle attività ludiche in generale, ma ciò avviene attraverso una serie di distinguo in chiave moralizzante nel gioco. Solo la laicizzazione dell’istruzione consentirà al gioco di trovare un suo spazio all’interno delle istituzioni e in precisi programmi educativi. Questi, pur mantenendo un’impronta ludica sportiva, daranno valore alle attività ludiche sotto forma di rappresentazioni e di giochi liberi da costrizioni. Le idee innovative di Locke (1632-1704) in proposito sostengono che il piacere del gioco dovrebbe essere simile a quello dello studio, affermando che il bambino può e deve apprendere giocando, essendo il gioco un’attività nella quale i bambini si applicano volontariamente e vi impegnano la loro operosità. Da ciò ne consegue, secondo l’autore, che per ottenere un buon apprendimento, gli insegnamenti debbono acquisire un carattere ludico.
L’eco delle sue proposte attraverserà tutta l’Europa, impegnando educatori, istitutori e rettori di collegi in programmi educativi con lo scopo di collegare in maniera organica gioco e apprendimento, attività di vita e attività di studio. In tal senso saranno orientate le teorizzazioni di Basedow e il suo metodo, concretizzato in un “Libro elementare” del 1711, conterrà moltissimi giochi istruttivi.
I suggerimenti dei due autori citati introdurranno in maniera sistematica il gioco tra le metodologie di apprendimento, dando rilievo a caratteristiche interessanti per l’apprendimento, quali l’uso di giochi simbolici, della competizione e del gruppo degli allievi per le possibilità di interazione tra i giocatori.
Una valorizzazione non casuale dei giochi educativi la si ritrova in Froebel (1782 -1852) con una serie di proposte dl attività, corredate da oggetti di gioco, che sono allo stesso tempo materiali didattici, ludici e simbolici. In Froebel è presente la valorizzazione sia del gioco come attività spontanea e libera manifestazione di energia, sia del gioco didattico. Inserito a pieno titolo nella giornata scolastica, il gioco didattico trova uno sviluppo attraverso la proposta di materiali strutturati cioè di materiale-gioco adatto all’apprendimento, da parte di molti educatori dell’Ottocento, tra cui Agazzi, Montessori, Decroly e i pedagogisti delle scuole attive ginevrine” (Ricc”, pag. 10-11). 

Dunque a prevalere è stata l’idea del gioco strutturato. Circoscritto in sequenze controllabili e programmabili.
Questo paradigma è ancor così tanto dominante da determinare completamente il mercato con le proposte video-elettroniche.

Froebel e l’esaltazione del gioco infantile

“Friedrich Froebel (1782 ‑ 1852) resta una luce nella storia dell’infanzia. Il suo giardino d’infanzia ha prodotto una profonda rivalutazione, in particolare, della prima e della seconda infanzia, e si è posto come modello d’avanguardia della successiva scuola materna (in Italia Rosa Agazzi prese le mosse dai giardini froebeliani) e dell’attuale scuola dell’infanzia.
Un altro geniale contributo fu l’esaltazione del gioco, con il quale l’educatore tedesco identificava l’infanzia stessa. Nacque così quello che Franco Frabboni, nella sua fortunata La scuola dell’infanzia, definisce il bambino ludico, che fa tutt’uno con il bambino ricercatore ed artista (romanticamente inteso).
Per il candido educatore tedesco, il bambino attraverso il gioco entra in contatto con la realtà, sperimenta forme di azione, intesse rapporti sociali, organizza vere e proprie attività di lavoro. Infatti, mentre gioca, il bambino è impegnato in un fare operoso, che sarà simile al lavoro dell’adulto, di cui in anticipo sono sperimentati ed avviati l’interesse, la passione, il desiderio per il ricercare, l’osservare, l’agire.
Collegati con il gioco, nel giardino d’infanzia si trovano i doni, sussidi didattici rappresentati da solidi geometrici (sfera, cilindro e cubo, suddivisibili in varie parti, secondo il principio delle colonne e dei mattoni).
Questi doni rappresentano i simboli delle strutture essenziali del mondo (come aveva già scoperto Galileo) e prefigurano un vero e proprio materiale strutturato, in grado di attivare (come Maria Montessori riprenderà con maggiore consapevolezza) le operazioni mentali fondamentali per lo sviluppo, unitario e insieme molteplice del bambino.
Sono stati rimproverati a Froebel, e forse con qualche ragione, sia un eccessivo simbolismo che un esasperato schematismo, che possono far allontanare il bambino dalla realtà concreta e dal contatto con le cose e la natura.
Tuttavia i suoi materiali hanno costituto la base e l’ispirazione per i successivi e moderni giocattoli per lo sviluppo dell’intelligenza e per le attività di costruzione (si pensi alla fortuna del Lego).
A Froebel, comunque, l’infanzia e gli educatori restano debitori e riconoscenti per la sua scoperta del gioco come modalità di sperimentare la realtà e di stabilire con essa un contatto gioioso e libero. Ascoltiamo le sue parole, piuttosto romantiche, ma piene di amore per i bambini e per la loro crescita serena e rassicurante.
Il gioco rappresenta il grado più alto dello sviluppo infantile, e cioè dello sviluppo umano in questo periodo. Il gioco è il prodotto più puro dell’uomo in questa età, ed è nello stesso tempo il modello e il ritratto di tutta la vita umana, della segreta vita naturale che vive nell’intimo di ogni uomo, di ogni cosa. Esso procura gioia, libertà, soddisfazione. Dona tranquillità in sé e fuori di sé, e pace nel mondo. Un bambino che gioca spontaneamente, tranquillo e costante, fino alla stanchezza fisica, diventerà certamente un uomo attivo, tranquillo e costante. I giochi di questa età sono i germi di tutta la vita futura del bambino; poiché in essi tutto l’uomo si rivela, sviluppando le sue più fini tendenze, la sua intima natura”.
(Lucchini E., Giocattoli e bambini, dall’antichità al 2000)

Dizionario sinonimi
 GIOCARE GIOCO
divertirsi
baloccarsi
trastullarsi
giocherellare
ricrearsi
spassarsi
svagarsi
sollazzarsi 
divertimento
passatempo
diporto
spasso
svago
ricreazione
Dizionario psicologia

Anche qui troveremo qualche idea preconcetta (?) o perlomeno dubbiosa, colpevolizzante … 

“Comportamento con aspetti molto numerosi e diversi, che di regola non ha per scopo il profitto o il guadagno, ma segue una trama e una meta di tipo fantastico, rispondendo a un bisogno psicologico di natura edonica.
Le espressioni più tipiche del gioco si hanno nell’infanzia e nella fanciullezza. In queste età esso implica un impegno piacevole e persistente e costituisce il fattore più importante dell’equilibrio emotivo. Il suo strumento abituale è il giocattolo; lo caratterizza e in genere ce lo rende più comprensibile.
Il gioco può essere solitario o collettivo e in questa seconda forma che va promossa, apre alla socializzazione con i coetanei.
(…) Il gioco può condurre a malaggiustamento scolastico del bambino e del ragazzo, quando eccessivo. In giusta misura è fondamentale fattore del loro comportamento aggiustivo.”
(Dalla Volta A, Dizionario di psicologia, Giunti, Firenze, 1974). 

In verità cosa vuol dire: “è eccessivo”? E poi “è aggiustivo”?
Sintomatica poi l’assenza di riferimenti al gioco simbolico. 

Procuste e i pellegrini

Procuste (o Damaste o Polifemone) è un gigante. Sulla strada di Atene ospita i viaggiatori. Costruì una marchingegno che si può ben dire infernale: un letto che poteva servire da unità di misura dei pellegrini. Chi era troppo piccolo si vedeva allungate le membra sino a raggiungere la giusta misura. Se era troppo grande gli venivano accorciate le membra, sino alla misura unitaria.
Viene poi giustiziato da Teseo. Viene pure descritto come un brigante.
L’immagine, il mito che proietta è uno: per entrare nella città, essere degno di Atene bisogna essere della misura giusta. E’ la storia, l’immagine del giudizio uniformante, l’immagine della istituzione che tutti e tutto rende (artificiosamente) uguale. L’immagine della violenza dell’istituzione … 

2) La mappa

“In quell’impero l’arte della cartografia raggiunse tale perfezione che la mappa d’una sola provincia occupava tutta la città, e la mappa dell’impero una intera provincia. Col tempo codeste mappe smisurate non soddisfecero e i collegi dei cartografi eressero una mappa dell’impero che uguagliava in grandezza l’impero e coincideva puntualmente con esso. Meno dedite allo studio della cartografia, le generazioni successive compresero che quella vasta mappa era inutile …”


-Borges J.L., Bioy-Casares A., Racconti brevi e straordinari, Ricci, Milano, 1973.

Perché la mappa?

  1. Nella mappa non esiste un punto di partenza privilegiato o predefinito. Se osserviamo una mappa geografica l’importanza di un monte, di un lago, un fiume, una città, strada o piazza viene data solamente dall’utilizzo che noi vogliamo farne. Ogni suo punto è un punto specifico e irrinunciabile. Ogni elemento potrebbe essere un punto di partenza, come vari sono gli obiettivi, i percorsi e le mete raggiungibili.
  2. ciò sembra, a un primo apparire, un disordine, uno stare nella confusione. Invece si danno gli elementi che permettono una lettura dinamica, un andare nella prassi, che è pari all’ordinare (tra la sua manifestazione sotto forme di azione o sotto forma di operazione). Più ordini possono allora coesistere.
  3. Una mappa che lascia presagire una rete (altra immagine, vedi in seguito) di relazioni che possono essere multiple, uniche, reversibili, ecc …
  4. Chi dorme non piglia pesci. Questo l’invito della mappa divenuta rete. Tessere delle relazioni, agirle … Un invito al gioco, fare variare le proprie esperienze … strutturare nuove conoscenze, come vedremo nel capitolo seguente.
  5. La mappa … non sai se la usi all’inizio o alla fine o alla metà del percorso. C’è e ogni tanto salta fuori dal sacco per confermare il tuo percorso o indicarti una nuova via.
  6. Attenzione però a non confondere mezzi e lavoro psichico. ciò che fa un operatore non sono i mezzi che utilizza ma le teorie che lo abitano.

N.B.! Nella mappa che presentiamo voi troverete alcuni (non pochi) concetti che abbiamo incontrato nel nostro lavoro. Non sono certo tutti quelli che possiamo associare al gioco e al giocare

“Si diverte la vite, quando «balla»?”

“Fra le tante stranezze semantiche della parola «gioco» ce n’è una che sembra stare per conto suo, esiliata in un angolo nascosto. E’ il senso che questa parola acquista in frase come «la vite ha troppo gioco», o «i miei impegni mi consentono un certo gioco».L’idea che le frasi esprimono è piuttosto chiara: c’è spazio libero fra vite e foro filettato, o fra impegno e impegno, quindi la vite ballerà un po’ (vale a dire che il buco è spanato, ndr.) e gli impegni non mi impediranno di fare una telefonata o di prendere un caffé. Quel che forse non è detto del tutto chiaro è perché questo spazio venga chiamato gioco: alcune delle cose che si riescono a sistemare fra due appuntamenti sono piacevoli ma altre no, e quasi nessuna ha un aspetto ludico. Per non parlare della vite. Si diverte la vite, quando «balla»?” (Bencivenga, op. cit., pag. 69). 

“Lo spazio libero tra le parti della nostra vita e del nostro ambiente è quel che ci permette l’invenzione, l’avventura, il rischio. E’ lo spazio del possibile: siccome è libero, può essere occupato da tante cose diverse. E’ lo spazio della scelta: niente gli si adatta a puntino (altrimenti sarebbe già pieno), dunque saremo noi a decidere cosa metterci. Ed è lo spazio in cui cercare noi stessi: la nostra differenza, la nostra originalità, il percorso esistenziale che ci ha resi quel che siamo, che ci ha fatti diversi da ogni altro.” (ibidem, pag. 71). 

Vediamo adesso di dare delle schede sui concetti indicati nella mappa. L’ordine per il quale vengono presentate non è del tutto necessario. Abbiamo optato comunque per una certa linearità o progressione. E’ questa piuttosto una scelta determinata dal lavoro stesso di mappatura.
Date le premesse della mappa, quella particolare linearità potrebbe venire modificata o legittimamente sovvertita in qualsiasi maniera.

Cartografia
Coazione

“Gliel’ho detto 100 volte, ma lui sbaglia sempre. Testa di legno”.
La coazione è un fenomeno meccanico, istintivo, ripetitivo, senza dubbi spiacevole.
E’ la ripetizione di un pensiero o di una azione. E’ manifesto il carattere istintivo in contrasto con un piacere (anzi la coazione soverchia il piacere).
Ripristina fenomeni passati, per questo ha anche a che fare con delle regressioni.particolare importanza ha allora il transfert, quando una relazione affettiva infantile è rivissuta inconsapevolmente con altre persone. Quante volte ripetiamo le medesime azioni e le medesime offensive affermazioni contro i bambini?
Quale principio aggressivo (difensivo) viene così a mettere fine ai giochi? 

Dicevamo che non c’è un punto di partenza. … vero. Potremmo partire da qualsiasi punto indicato dalla mappa per parlare del gioco e delle sue variabili connesse.
Eppure nella nostra esperienza professionale c’è una vicissitudine che può essere considerata come il nostro punto di partenza.
… la ripetizione; la coazione é la vera nostra partenza in questa ricerca che ci ha condotti al gioco. … il fenomeno che, a partire dalle riflessioni condotte sul funzionamento senso motorio a scuola, ci ha condotti infine al gioco e al giocare. 

I bambini che ripetono sempre le stesse procedure, che ripetono sempre le stesse cose, che commettono sempre gli stessi errori, che ripetono meccanicamente le medesime soluzioni, che applicano senza riflettere soluzioni apparentemente adattate in altri momenti … senza avvedersi che ripetono sempre la stessa sofferenza e la stessa frustrazione … ecco questi bambini ci mettono in difficoltà, mettono in crisi la nostra pratica quotidiana quali educatori, docenti, pedagogisti, ecc … sino a “romperci le scatole”. 

Bambini che non sanno pensare, che non sanno fare relazioni ed astrazioni, bambini che suscitano rabbia e frustrazione. 

Per pensare bisogna uscire dalla ripetizione, la ripetizione meccanica è un segno di non pensiero, la ripetizione non è crescita, non é apprendimento (a meno che la ripetizione sia scientemente finalizzata ad un progetto del pensare)
.Ricordiamo quindi l’importanza e la permanenza di modalità di funzionamento senso motorie a scuola (e oltre gli apprendimenti scolastici). … per noi questo il punto nodale nella crescita e nell’apprendimento. Il superamento di tali modalità, o l’aggiramento, non sappiamo come meglio definirlo, per conquistare e rinforzare modalità di pensiero che introducano il saper fare legami, l’astrarre, il creare immagini, il sapere estendere le strategie a terreni nuovi (generalizzare), il saper attendere e gestire una ipotesi non (ancora) confermata, il saper contenere l’ansia e l’emozionedi una risposta che non viene, … passare da modalità primarie a secondarie di funzionamento.
A questo proposito i testi “L’intelligenza senso motoria a scuola. Senso motricità e pensiero a scuola” e “Chi lo fa lo aspetti. Meandri sullo sradicamento del pensiero” sono importanti per capire qual’è il soggetto di questa ricerca. 

Ebbene: ripetere … vi sono varie funzioni del ripetere. C’è un ripetere per così dire positivo e un altro molto negativo. Prima di tutto bisogna dire che mica tutto ciò che è meccanizzato è negativo.
Intanto le macchine potrebbero liberare l’uomo da compiti troppo ripetitivi. 

Insomma la ripetizione serve a consolidarsi, a rinforzarsi e ritrovarsi confermando le immagini del mondo e di sé. La ripetizione è rassicurante. Ha una funzione adattativa. Mi permette di scrivere velocemente al computer, di guidare l’automobile, di camminare, di eseguire comodamente una divisione senza dover penare troppo.
Ve la immaginate la vostra vita senza le tabelline della moltiplicazione? Ogni volta dover perdere tempo per ricostruire  un algoritmo, ricordare i passaggi, soffrire per l’insicurezza e quindi inesorabilmente perder letteralmente la passione? 

Poi però c’è una ripetizione che assume una forma coattiva. Una ripetizione che non è più una forma adattativa, una forma dove prevalgono l’errore e il dispiacere, una coazione che non permette al nuovo di sorgere, che impedisce la formazione di immagini e di legami nuovi, insomma che non permette  la liberazione  del pensiero e la salute del pensare.
Una patologia del pensare.Ma chi glielo fa fare a un soggetto di ripetere sempre con sommo sforzo, soluzioni, risposte, maniere di procedere (per dirne una il conteggio iterato di unità senza memoria dei prodotti) che generano frustrazione, rabbia ed umiliazione? Non è certo facile sopportare e gestire l’onta della “stupidità”. 

C’è chi, a scuola, sprona (sig!) alla ripetizione per liberare il pensiero.
Insomma liberazione od occupazione del pensiero? 

La lettura richiede un controllo sistematico della corrispondenza suono segno, vale a dire la decifrazione, specie quando si leggono parole difficili, nuove, o in un lingua straniera. Ma la lettura non è solo quello.
La lettura, intesa nel processo di comprensione di quanto letto, domanda il passaggio dal registro persecutorio (il controllo sistematico della corrispondenza suono segno) a quello rappresentativo, vale a dire il passaggio da un registro meccanico, o, al meglio, meccanizzato, di tipo percettivo motorio uditivo visivo a quello ideativo.
Una delle costanti del fare senso motorio è il primato della percezione, dell’agire aderente, dell’agire senza tempo nell’immediatezza, nella fobia del tempo sospeso …
La difesa principale corto circuita il tempo del dubbio. Tempo dove si confrontano la propria organizzazione e le costrizioni dell’apprendimento.
Gli interrogativi legittimi e le normali inquietudini che nascono con un nuovo apprendimento si trasformano rapidamente in preoccupazioni identitarie che parassitano e bloccano il rendimento intellettuale. così prevalgono le forze che portano al rifiuto, alla ripetizione e alla sofferenza, a non voler fare legami, a non rappresentare. 

Come passare e fare passare dal registro percettivo a quello rappresentativo, ecco la sfida che abbiamo raccolto. Ecco il compito che ci siamo assunti con questa ricerca sul gioco e il giocare. 

Questo non è privo di pericoli. 

L’apprendimento non è più un gioco?
Il bambino viene paralizzato dal dubbio. Dubbio che non viene considerato come momento di ricerca, di azione e di creazione, di passaggio “tra 2” cose, eventi, … ma come una perdita, una mancanza di riferimenti e quindi angosciante. 

Accade che l’impresa del controllo soverchi la relazione di trasmissione e la funzione di trasmissione tra educatore e allievo.
In questa maniera l’allievo verrà a porsi in maniera così adesiva, da dover ripetere (imitare senza assimilazione) quanto gli viene proposto come modello fisso, per paura e angoscia d’abbandono, o di sottomissione completa … 

La coazione non é così la sola ripetizione di affermazioni offensive ed umilianti quali quella riportata in apertura. Il vero lato nascosto della coazione educativa risiede nella ripetizione continuata di proposte, di contesti o materiali quando questi non portano più ai risultati sperati e quindi reiterati ab eternam con massima pace per la propria frustrazione nascente. 

La coazione può essere di tutti: dell’allievo che ripete sempre le stesse soluzioni che perpetuano la non riuscita, e che pure suscitano l’ilarità, le respinte degli altri; del docente che propone sempre lo stesso modo di approcciarsi, perpetuando uno smacco che espelle da sé aggredendo verbalmente e corporalmente la vittima designata. 

Diffidiamo! L’impedimento al pensare è di difficile cura. Per contro guadagna rapidamente gli insegnanti e tutti coloro che si occupano di istruzione ed educazione. 

Dal s. motorio al pensiero logico

Trattiamo del passaggio dal pensiero senso motorio al pensiero operatorio per considerare lo sviluppo delle strutture logiche. Quanto ci preoccupava in precedenza, i bambini che non sanno ragionare a scuola, in qualche maniera ha a che fare con la presa a carico di anomalie strutturali del pensiero: che si tratti delle operazioni logiche descritte dall’epistemologia genetica, che si tratti dei meccanismi di identificazione proiettiva, o che si tratti di anomalie della costruzione di senso e di costruzione di legami. In altre parole desideriamo trattare di un apparato che fa fatica a pensare i pensieri.
Molti sono gli esempi estratti dal contesto scolastico che trattano di bimbi che non sanno ragionare. La scuola dell’obbligo inizia a 6, 7 anni a seconda dei paesi. Alla medesima età si indicano importanti traguardi da un punto di visto cognitivo evolutivo. Quindi osservazioni psicologiche ed ordinamento giuridico concordano nel situare alla medesima età una euristica fondamentale. Eppure dopo questa età e dopo l’entrata a scuola molti bambini continuano ad operare prevalentemente con modalità senso-motorie o percettivo-motorie.

Il gioco: la transumanza

Facciamo una lunga citazione che riassume magistralmente l’importanza del gioco.
“- L’evoluzione del gioco sembrerebbe precorrere la nascita del linguaggio e del comportamento simbolico, nei primati superiori e nell’uomo.
– Attraverso il gioco è possibile minimizzare le conseguenze delle azioni e quindi apprendere in una situazione meno rischiosa. Il gioco consente cioè di neutralizzare le difficoltà di un’azione finalizzata, la tensione al positivo compimento di un atto, riducendo sia la tensione che la possibilità di frustrazione.
– In questa prospettiva, il gioco rappresenta una buona occasione per tentare nuove combinazioni comportamentali che non potrebbero essere sperimentate sotto pressione funzionale Probabilmente, è proprio questa «spinta alla variazione» che consente migliori adattamenti strumentali.
– Il gioco, inoltre, data la sua concomitante libertà da rinforzi e il suo collocarsi in un ambiente relativamente libero da pressioni, può produrre la flessibilità che rende possibile l’uso degli strumenti.
– I piccoli hanno maggiore inventiva.
– Il gioco ha inoltre le sue regole. Sotto un profilo strutturale, si tratta di un’attività tutt’altro che casuale, universalmente caratterizzata da un ben distinto sistema di regole.
– Diverse culture incoraggiano forme differenziate di gioco come mezzo per l’adattamento, poiché la struttura normativa del gioco sviluppa nel bambino il senso delle regole di una data cultura.
– Il gioco può dunque servire come veicolo per insegnare la natura delle convenzioni della società e può ragguagliare sulla natura della convenzione stessa.”
(Belisario, op. cit., pag. 23-24).

 “In una parola, la capacità di giocare: se non sapessimo giocare non potremmo neanche ragionare in modo finalizzato. E’ il pensiero come soluzione di un problema che presuppone il pensiero come gioco, non viceversa”
(Bencivenga, op. cit. pag. 163). 

Separare, staccare la percezione dall’oggetto: questo è rappresentazione. Il gioco lo permette, lo favorisce, lo rinforza. Questo è pensiero. 

L’anatomia del gioco è la chiave di comprensione dell’anatomia del pensiero. 

L’apprendimento e il gioco

Il gioco a scuola? La sua (non) presenza nelle attività quotidiane, le richieste di gioco a scuola ne danno una identità schizofrenica.
Da un lato è considerato fondamentale. Non siamo noi i primo a dirlo. Noi, non facciamo, in verità, che ripetere quanto i manuali di puericultura, i testi di psicologia, le prescrizioni pedagogiche o semplicemente le affermazioni degli operatori scolastici (educatori, docenti, direttori, ecc …), vanno ripetendo da 100 anni almeno.
D’altro lato però viene relegato a ricreazione, a ginnastica o utilizzato come premio (l’altra faccia della medaglia è il ricatto) quando il lavoro è finito.
Da un lato è bandito dalla attività scolastiche, dall’altro viene idealizzato in forme tanto romantiche quanto fantasiose. In vari casi viene poi asservito alle esigenze didattiche tramite simulacri: giochi che servono fondamentalmente solo per dare una interfaccia accattivante, o per ricuperare motivazioni che si credono perse.
L'”adesso si, giochiamo” viene allora a trasformare idealmente la noiosa matematica. Siccome la matematica è noiosa la si vuole rendere più bella con i coniglietti, i peluches o altri oggetti e personificazioni del mondo infantile (ma lo sono poi veramente?). Simulacri perché alla base sottostante di tali pensieri vi è la convinzione che il gioco sia qualcosa di solamente banale, futile, un passatempo o una frivolezza. Una leggerezza da proporre per un o svago, o per ricuperare motivazioni oramai assopite. Mai serio: figuriamoci gli scacchi a scuola! 

La fase senso-motoria della crescita è la base dello sviluppo dell’attività psichica. E’ proprio sulle riflessioni legate alla presenza o alla resistenza, quale modalità di interazione e di funzionamento a scuola, del funzionamento e del pensiero senso-motorio che ci ha spinti a inoltrarci nel terreno del gioco.
Il gioco sollecita in maniera più o meno aperta varie funzioni dell’intelligenza:

  • dalle reazioni circolari alle operazioni mentali quali le classificazioni, le generalizzazioni, le differenziazioni, le trasformazioni, le seriazioni spaziali e temporali, la messa in relazione,
  • dalle attività intellettive quali la memoria, e l’organizzazione spaziale ai contenuti ideativi che siano essi figurati, simbolici, comportamentali,
  • dalle rappresentazioni visive, ideative, alla espressione orale delle proprie ipotesi, delle proprie idee e fantasie.

 Nella sua crescita, il bambino coglie, o si fabbrica le regole che reggono il funzionamento della realtà. Deve forgiarsi degli invarianti, al fine di acquisire la rappresentazione di un mondo dotato di una certa permanenza e di riferimenti costanti. Se ciò non esistesse non ci sarebbe pensiero possibile, ma solo immagini evanescenti.
E giocare = manipolare, costruire tali regole, verificandone la solidità (e la propria solidità!). Senza permanenze non c’è pensiero. Uno dei primi giochi è poi proprio quello che fa apparire e scomparire (costruzione e verifica della permanenza dell’oggetto, e contenimento dell’ansia sulla permanenza dell’oggetto). 

Bambini che non ragionano, quante volte diciamo questo o sentiamo questa formula, rispetto ai bambini che non riescono a scuola. Il ragionamento o la sua assenza è connaturata forse alla mancanza di gioco di pensieri, alla fissità, alla ripetitività di pattern, alla mancanza di rappresentazioni personali, al pensiero bloccato alla ripetizione di pattern.
Bambini che non ragionano? Bambini che non giocano? 

“L’esperienza ludica diventa così il terreno privilegiato su cui seminare qualunque apprendimento creativo, dove la creatività costituisce un modo di interagire con la realtà cognitiva, un  pensare diverso che implica il superamento del dato esperienziale per raggiungere un risultato nuovo e originale. Piuttosto che una serie di inutili espressioni motorie, il gioco diventa un’attività di riflessione, di scelta e di continua reinvenzione di fronte al mondo degli oggetti”
(Belisario, op. cit., pag. 37).

“Un processo di socializzazione familiare e scolare eccessivamente improntato al principio della prestazione o del successo, finisce dunque per avere riflessi negativi anche sul gioco, impoverendolo dei suoi contenuti positivi e rendendolo, anch’esso, fortemente ansiogeno”
(ibidem). 

I bambini apprendono meglio quando si tiene conto delle loro motivazioni. Per contro certi metodi di insegnamento frustrano l’immaginazione, e l’attività, generando un calo di motivazione che può essere solamente ricuperato incentivando la competizione, ricorrendo alle minacce, alle punizioni e ai premi.
Il gioco si situa a un punto di svolta, è il terreno privilegiato sul quale innestare un apprendimento creativo e attivo. 
Per queste ragioni il gioco è da considerarsi una fondamentale attività di prevenzione del disagio scolastico. 

Gli stadi del gioco

Per Piaget si può suddividere l’evoluzione del gioco in tre stadi:

  • il primo consiste nel gioco d’esercizio, che consiste nella ripetizione, finalizzata al divertimento, di attività acquisite in altri contesti a scopo di adattamento. Questo tipo di gioco si sviluppa nel periodo-senso motorio e ad esso è connesso. Il gioco primitivo si confonde con l’insieme delle condotte senso-motorie, come comportamento non ha la necessità di nuovi accomodamenti e si riproduce per piacere funzionale”. Si associa quindi molto alle reazioni circolari;
  • il gioco simbolico invece, considerato l’apogeo del gioco infantile, si sviluppa dai tre ai cinque anni, è un gioco di immaginazione che consiste in una trasposizione simbolica, sottomette le cose all’attività propria, all’infuori di regole o di limitazioni;
  • il gioco di regole, socialmente trasmesso e di importanza crescente con lo sviluppo dell’infanzia.
Il gioco simbolico

Con questa attività il bambino assimila a sé la realtà che incontra. Si contrappone quindi ad un adattamento, richiesto dall’ambiente, in termini di trasformazione di se stesso e di adeguamento alle richieste esterne. Le richieste sociali, in genere, sono considerate inadeguate rispetto i bisogni e alla loro espressione del bambino. Lo spazio del gioco (simbolico, ma non solo) diventa quindi un luogo importante dove il bambino assimila a sé la realtà senza costrizioni e condizionamenti.
Per Piaget è indispensabile che il bambino possa ricorrere a un suo sistema di significanti, un sistema personale e soggettivo, un sistema docile ai suoi voleri e ai suoi desideri. Un sistema cangiante e che permette al bambino di evocare.Probabilmente questo luogo si avvicina allo spazio che Winnicott definisce transizionale, perché è luogo di incontro e scambio tra il bambino e la realtà.
Winnicott, ha coniato l’espressione oggetti transizionali per quel tipo di giocattoli o cose (coperte, foulard, etc…) dai quali il bambino sembra trarre un senso di sicurezza immediato, paragonabile per certi versi alla sicurezza esperita nei futuri rapporti affettivi interpersonali.
L’evocazione è il punto centrale. Da un punto di vista cognitivo, vede il bambino attivo, produttore di significanti, quindi di sostituti rappresentativi di oggetti o fenomeni concreti.
E’l’agire di questi sostituti, di queste evocazioni, che mette il bambino in grado di dominare la realtà e di costruire una sua proprio sistema di rappresentazioni, come pure di rappresentazioni concrete.L’evocazione mobilita poi sovente conflitti inconsci che attraverso il gioco vengono eliminati. Fobie, interessi sessuali, aggressività, ansia …
Il gioco compensa poi bisogni insoddisfatti. E’ quindi una vicenda di costruzione e rafforzamento dell’Io. 

Il gioco di regole

Per Vygotskii “nel gioco il bambino è sempre al di sopra della sua attività mentale, al di sopra del suo abituale comportamento quotidiano …Il gioco contiene in sé, in forma condensata, come il fuoco in una lente di ingrandimento, tutte le tendenze dello sviluppo … crea l’area di sviluppo potenziale”.
L’area di sviluppo prossimale ecco quanto di Vygotskij ci interessa.
Secondo lui le forme del gioco vengono ad evolversi nella progressiva esplicitazione delle regole dei giochi. Regole che non appaiono nei giochi di finzione. Crescendo, le regole dei giochi diventano più rigide ed esplicite, il bambino trova così uno spazio rassicurante, necessita un adattamento sempre maggiore, ma così trova forti stimoli allo sviluppo intellettivo. La creazione di situazioni fittizie sempre più complesse sviluppano poi così il pensiero astratto. 

“Il primo paradosso del giuoco è che il bambino opera con un significato staccato, ma in una situazione reale. Il secondo paradosso è che il bambino segue nel giuoco la linea della minore resistenza; cioè fa ciò che desidera di più , perché il giuoco è legato al piacere. Nello stesso tempo impara ad agire secondo la linea della maggiore resistenza: sottomettendosi alle regole, i bambini rinunziano a ciò che vogliono. Poiché la sottomissione alle regole e la rinunzia ad agire secondo un impulso immediato nel giuoco è la via verso il massimo piacere”
(Vygotskij, Immaginazione e creatività, pag. 153).

Un gioco senza regole non è più un gioco. Un gioco dove le regole vengono piegate secondo l’ultimo capriccio o secondo un’onnipotenza del bambino (es. distrugge il campo quando perde) porta a una totale evanescenza. Non c’è più oggetto, non c’è più permanenza, c’è solo patologica illusione, confusione tra desiderio e realtà. L’accettazione delle regole è quindi un momento magico transizionale tra i giocatori …
Nota: per Vygotskij qualsiasi gioco di finzione è un gioco di regole (magari implicite) e qualsiasi gioco di regole è pure un gioco di finzione. 

Pensiero simbolico e pensiero infantile

In un articolo del lontano 1923 Piaget ha confrontato il pensiero simbolico e quello infantile. Segno distintivo dei due tipi di pensiero è l’assenza di un seguito logico, la predominanza dell’immagine sul concetto e il carattere inconscio delle connessioni che collegano le immagini tra loro. Le analogie sono di tipo strutturale e processuale.
Tra pensiero simbolico e pensiero operatorio ci sarebbe poi un percorso continuo, essendo il primo di tipo pre-concettuale. 

L’assenza di un pensiero diretto e la predominanza delle immagini indicano che il pensiero infantile si situa come anello di collegamento tra pensiero simbolico e pensiero logico.L’amnesia infantile, la difficoltà a dare definizioni logiche (con definizioni per immagini e/o contradditore), l’incapacità di introspezione caratterizzano questo pensiero dal punto di vista processuale. 

Per quanto concerne l’immagine possiamo rilevare che:

  • sovente sostituisce il linguaggio
  • ha un contenuto manifesto ed uno latente
  • è intercambiabile avendo il suo significato distinto dal significante.

L’immagine è quindi retta dai processi della condensazione (il simile va con il simile) che quindi è una forma “primitiva di generalizzazione e dello spostamento (déplacement) che sarebbe una forma primitiva di astrazione, “ma senza eliminazione delle immagini di sintesi”. “C’est la tendence spontanée de toute intelligence, qu’elle soit symplement analogique ou qu’elle se développe en raisonnement discursifs, de fondre les représentations entre elles”
(articolo citato p. 292). 

Il problema si pone quindi quando il bambino non ha potuto (per ragioni inconsce, quali conflitti interiori, presenza di desideri rimossi, fantasmi o aggressività mal riposte, o per ragioni cognitive strutturali, quali la mancanza d’esercizio, ecc …) sviluppare una propria perizia, una propria pertinenza a sviluppare ed elaborare immagini proprie, prima di lavorare con le immagini eterodirette.
La domanda che regge queste considerazioni potrebbe essere: come posso accettare il tuo pensiero se prima non ho potuto fare esperienza del mio e con il mio pensiero? Dove per accettare” intendiamo l’assimilazione e non certo l’accomodamento passivi. Perché di questo si tratta: troppi apprendimenti sono frutto di un piatto accomodamento o iperaccomodamento senza vero pensiero.
Tra gioco simbolico e gioco di regole, è in gioco (scusate il bisticcio) tutto il nostro ruolo di operatori legati, in qualche modo, ai processi di apprendimento-insegnamento. 

Come può un bambino entrare in un sistema di conoscenze – che è un sistema regolato e strutturato – se prima non ha fatto l’esperienza dei sistemi (o del sistemare i sistemi)? Più precisamente se prima non ha sviluppato una pertinenza relativa a un proprio personale sistema?
“Non si può pretendere dal bambino o dall’alunno qualcosa che egli non è ancora in grado di dare o che non fa parte del suo mondo, proponendo modelli standardizzati senza badare all’individualità di ognuno, questo diverrebbe una forte coercizione che allontanando dalle vere consapevolezze, creerebbe nell’alunno uno stato confusionale fra ciò che egli è, ciò che vorrebbe essere e ciò che gli altri vogliono che sia”
(P. Dei, C. Gambarini,Tra gioco e arte, imparare ad imparare con esperienze gestaltiche e mappe cognitive, Armando,2000, pag. 24).
“In un ambiente siffatto non viene a realizzarsi il principio dello holding environment nel quale l’allievo trova e costruisce le sue sicurezze ed ancora una volta non si realizza un percorso di prevenzione”
(ibidem pag. 24).
La prosecuzione da un fare senso-motorio ad un altro fare senso motorio, ecco a cosa può risolversi il passaggio dal soggetto infante a quello dell’allievo passivo e che non ragiona a scuola. O meglio dovremmo parlare della perpetuazione di un fare senso motorio oltre la sua normale e abituale esistenza.
Come credere che quel bambino possa assimilare delle conoscenze – che sono delle strutture di connessione fra elementi – se prima non ha fatto l’esperienza del connettere. E se prima non ha liquidato o elaborato le proprie connessioni.
” … gentile, pulito, educato, rispettoso degli altri, ma senza una interiorizzazione profonda, mancando egli di soggettività e di iniziativa propria, di originalità nell’attività quotidiana e nei legami oggettuali, essendo incapace di separarsi mentalmente dal pensiero dell’altro ed agendo secondo un modello primario di attività speculare”
(ibidem pag. 36).
Il passaggio da un fare senso motorio a un (iper)accomodamento senza assimilazione, ecco a cosa può risolversi l’insegnamento di concetti a scuola, quando il bambino non si è preso la libertà di creare delle proprie immagini, delle proprie connessioni – che situandosi da qualche parte fra l’autismo e il pensiero logico – diano al bambino la legittimità per significare le proprie esperienze, il proprio desiderio, i propri bisogni …
Non c’è pensiero senza esperienza, e quella che si sviluppa nella prossimità (spazio prossimale, Winnicott) tra mondo interiore e realtà esterna risulta necessaria per lo sviluppo del pensiero.Il pensiero infantile è un pensiero che ricerca e ha bisogno di soddisfazione, e retto principalmente dal principio di piacere (Lustprinzip). Il pensiero logico ha bisogno della verità, è quindi retto dal principio di realtà (Realitätprinzip).
Per questo Piaget accorda al pensiero simbolico e al pensiero infantile un carattere ludico, dove il gioco è il medium che li unisce. Del resto ha sempre considerato che la miglior cosa che poteva succedergli fosse quella di non perdere mai il desiderio di giocare (restare o coltivare il bambino che c’è in noi). 

Per quanto concerne il gioco di regole il discorso si fa un po’ diverso anche se le premesse sono sempre uguali. Si tratta di permettere al bambino una interiorizzazione, assimilazione (Piaget) o appropriazione (Vygotskij) senza che il bambino cada in un solo accomodamento … 

Pensiamo solo al lavoro di categorizzazione. Il creare classi di oggetti o fenomeni (oppure classi di classi) apparentati tra loro da 1 o più criteri di somiglianza (quali potrebbero essere il colore, il peso, la resistenza, l’orario, la destinazione, la numerosità, l’etimo, l’origine, la distanza da …, l’appartenenza a …, ecc …).
Ebbene questo processo identitario non si applica unicamente seguendo modalità logiche.
E’ vero noi siamo abituati a considerare il mondo prevalentemente sotto le sue apparenze logiche, fisiche e spaziali. Meno secondo la sua estetica, la sua armoniosità, ecc … Lo consideriamo prevalentemente come un processo scientifico, che si basa su dati sensibili, misurabili, trasmissibili, ecc …
Ma non è solo così.
Pensiamo solo alle collezioni figurali di piagetiana memoria. Ovverosia la raccolta di bastoncini seriati e colorati, da parte di bambini in età prescolare, non in base a dei criteri codificati, logici scientifici, quali la lunghezza, il colore o la rappresentanza numerica, quanto la raccolta secondo disposizioni percettive figurali: la casetta, il battellino, l’autocarro, … o la raccolta in forme pure tridimensionali: la torre.
Così abbiamo varie modalità di assemblare per somiglianza. Fra varie altre (estetiche, musicali) ricordiamo in particolare le modalità:

  • per contiguità, raccogliendo tutti gli oggetti o le immagini che stanno vicini in una attività temporale;
  • per “raziocinio” raccogliendo gli oggetti o le immagini secondo un criterio logico, come tradizione insegna;
  • per tono affettivo, raccogliendo tutti quegli oggetti, o immagini o significanti che rimandano ad una emozione a uno stato d’animo, a un ricordo;

queste ultime combinazioni sono inaspettate, innumerevoli, quanto le esperienze del soggetto e il ricordo che le accompagnano. 

Prassie e gnosie

In un contesto di apprendimento un gioco lo possiamo valutare sotto aspetti:

  • motori, qui ci interessa l’affinamento dei pattern esecutivi, della motricità, globale o fine; delle produzioni, della loro migliore o peggiore fluidità, estetica nel caso di prodotti grafici, ecc …
  • cognitivi, come negli scacchi o altri giochi di strategia, ci interessano i processi di acquisizione delle regole, dell’anticipazione e della programmazione strategica, della concentrazione e della fatica, della resistenza alle frustrazioni e alla lunghezza dei pensieri, ecc …
  • ma in verità si tratta pure di apprendimento spaziale, logico aritmetico, linguistico, artistico, ecc …simbolici, ci interessa la liberazione dell’io, le sue vicende, la sua possibilità di trattare le proprie associazioni e di dar volo alle proprie inibizioni. Ci interessa la sostenibilità del pensiero nei suoi rapporti

Ad esempio, in un materiale come i DDCP, i bambini sono invitati ad argomentare le proprie scelte ed osservazioni in un contesto che si vuole logico ma emotivamente avvinghiante. Logico proprio in virtù del suo contesto argomentativo, come pure per la natura di certe sue proposte. Ma pure e principalmente soggettivante, perché presentando degli stimoli ambigui – illogici o contradditori – ed emotivamente carichi sul piano dinamico, mette i bimbi in situazione di elaborare le proprie esperienze relative ai rapporti parentali, fratrie, emozioni, lutti, ecc …sbloccando, nei migliori dei casi, i bambini dalle proibizioni a ragionare, abituandoli a gestire l’ansia determinata dalla mancanza di esiti socialmente preformattati. Abituandoli ad avere fiducia nelle proprie produzioni ne rafforza l’autostima. Partendo dalla propria esperienza e dalle proprie emozioni, quale terreno di argomentazione logica, permettono al bambino di esprimere le propria paure, emozioni, disagi – facendone, si spera, l’economia – e per questo costruire le condizioni e la possibilità stessa di strutturare un contenitore logico.

Percezione

Nella prima infanzia la percezione “non è in generale un movimento autonomo, ma il motore iniziale della relazione motoria-effettiva”
(Vygotskij, Immaginazione e creatività, pag. 129).
Vale a dire: il bambino percepisce qualcosa e reagisce in base a una dinamica percezione-reazione diretta. Nel gioco invece tale dinamica perde il carattere impulsivo. Il bambino incomincia ad agire indipendentemente da ciò che vede o percepisce. 
“L’azione in una situazione che non si vede, ma che si pensa, l’azione in un campo immaginario, in una situazione fittizia, porta al risultato che il bambino impara a determinare il proprio comportamento non soltanto con la percezione diretta di una cosa o con una situazione che agisce direttamente su di lui, ma anche con il seno di questa evoluzione”
(ibidem pag. 129). 

“In sostanza l’attività in una situazione fittizia libera il bambino dalla costrizione della situazione reale”
(pag. 128).
Nell’età infantile vi è una sorta di aderenza tra campo visibile e campo semantico. Non c’é divario possibile. Come ricorda Vygotskij frasi come “la neve è nera” non sono possibili. La lingua serve piuttosto come sostituto diretto adesivo, descrittivo della realtà …
In verità il campo semantico deve staccarsi da quello visivo. Il linguaggio da imperativo e descrittivo deve evolvere verso altre funzioni che non siano solo quelle primitive. 

Nel gioco l’azione si stacca dal significato originario di un oggetto. L’azione proviene dal pensiero e non dall’oggetto.
Separare il pensiero dalle percezioni, separare il pensiero dagli oggetti circostanti è una cosa terribilmente difficile per molti, non solo per i bambini in età prescolare.
Nel gioco ciò diventa possibile, almeno per la prima volta nell’evoluzione del bambino. Il bambino prende un bastone per farne il suo cavallo. Opera una sostituzione di significanti. Assimilando (piegando) a sé la realtà attua una affermazione di sé. Parte da qualcosa di interiore, un desiderio, una pulsione, un sogno … 

Mettiamo il cavalcare.
Vedo un cavallo: penso “si può cavalcare”. Questo è il meccanismo diretto della percezione.
Prendo un bastone e fingo un’eroica cavalcata. Questo è un meccanismo del pensiero (e del desiderio) fattosi azione.
Prima: vedevo un cavallo e pensavo a cosa posso farci (il senso viene dopo la percezione esterna).
Adesso: desidero cavalcare e quindi immagino di cavalcare a cavallo di un bastone (il senso viene prima della sua realizzazione esterna tramite il bastone-cavallo).

Vedo un cavallo: lo nomino. Dal significante al significato, sotto una sua forma sonora.
Questa è una funzione del linguaggio: la sostituzione della realtà (fisica) con una sua denominazione.

Prendo un bastone: lo nomina “cavallo”. Opero una sostituzione del significante semantico a quello fisico. O meglio: ho adesso due significanti: uno sonoro e uno fisico con un medesimo significato: quello legato al cavallo e al cavalcare.
C’è quindi una sostituzione e quindi transitività fra significanti di varie forme.
Il significato si distanzia (vieppiù ) da un unico significante, subordinando quest’ultimo alla evoluzione di un pensiero-affetto.
Qui la funzione del linguaggio non è più solo denominativa. Serve ad esprimere i propri desideri (cavalcare) e il proprio fare. Ha quindi una dimensione metacognitiva o quasi operatoria. O meglio: invece di descrivere la realtà descrive la propria azione. 

Ma il distacco semantico fra parola e cosa non è l’ultimo.
Il gioco rende possibile pure il distacco tra l’azione e il suo senso. Quando l’azione non è adesiva, non si risolve al suo solo aspetto motorio, ma per il senso ulteriore che essa denota. L’azione, come dice Vygotskij, diventa un punto sul quale appoggiare il senso. Un’azione ne sostituisce un’altra, come un significante ne sostituisce un altro. Prendere un bastone e metterlo fra le gambe diventa segno del cavalcare. L’azione diventa essa stessa un significante … 

Il gioco a scuola

“Quando hai finito puoi andare a giocare”.
“Vedo che sei proprio stanco, vai pure a giocare”.
“Se non finisci, non puoi andare a ricreazione”.
“Prima il dovere, poi il piacere”.
“Smettila di giocare e concentrati”.
“Non siamo qui per perdere tempo, smettetela di giocare”.
“Adesso passiamo alle cose serie”.
“Ma dove vi credete di essere, al mercato”?
“Qui facciamo (solo) cose serie”. 

Possiamo affermare tranquillamente che i giochi permessi ai bambini sono quelli passivi, sedentari, controllati, mentre i giochi che richiedono movimento, spontaneità, inventiva si svolgono di nascosto, in assenza del controllo degli adulti. Forse solo perché i primi sono circoscritti e circoscrivibili in uno spazio tempo ristretti, mentre i secondi sono sfuggenti, imprevedibili e magari disordinati e rumorosi?
Il gioco diventa segno stesso della contraddizione: è importante, decisivo e tutto quel che si vuole, ma viene per lo più confinato in spazi e tempi ristretti, spesso alla sola ricreazione (e magari nemmeno a quella quando volano castighi).

Le costanti

Ogni gioco ha un campo di gioco, ha delle costanti che vale la pena individuare. Vale la pena individuare quali sono le costanti del sostegno per sapere se è un gioco e quale tipo di gioco è.
Cominciamo con una descrizione.

Il campoDisegno, fare storie, giocare, schedario di ortografia o di matematica, l’ascolto, dislessia, …  sono altrettanti campi dove l’operatore e l’utente sono chiamati ad interagire.
I giocatori in campo: 

il (i) capitano(i)  Operatore SSP, bambino/i, i docenti titolari, i genitori … 
 le “riserve”, i “gregari” Autorità scolastiche, …
Le regole,i materiali,gli oggetti.Fogli e matite, puzzles, plastilina, filo a piombo, sabbia, pupazzetti, audiocassette, materiale in base, mattoncini Lego, Meccano, carte milanesi o da scala, schedari, ecc …
Il tempo1, 2, 3 ore per tot. settimane, mesi, anni
Lo spazioL’Ambulatorio di sostegno, l’aula scolastica
Obiettivo del gioco 

Date queste costanti possiamo adesso fare un inventario dei giochi che ogni operatore conduce nel suo quotidiano operare. Resta evidente il fatto che ogni operatore può condurre tanti giochi differenti quanti sono gli utenti del suo servizio. E con ogni utente può intraprendere molteplici giochi.
Rammentiamo solo alcuni esempi:

  • la risoluzione di schede nell’ambito di un percorso di apprendimento differenziato,
  • fare storie,
  • il racconto delle origini,
  • manipolare, classare, seriare,
  • la realizzazione di un progetto di ricerca,
  • l’argomentazione,
  • l’apprendimento di un algoritmo aritmetico.
Sostegno come rappresentazione

Concetti e prassi collegate ai concetti di spazio transizionale o ancora spazio prossimale, come Winnicott e Vygotskij dovrebbero averci abituato, sono lì per indicarci che lo spazio del sostegno è certamente uno spazio simbolico. Ogni spazio istituzionale, dalla piazza alla scuola, dal mercato al carcere, dalla chiesa alla stazione ferroviaria, dal lettino psicanalitico all’ospedale, definiscono delle modalità dello stare con gli altri. Sono spazi che accordano e concedono pensieri, desideri, viaggi della mente … connessi alla loro stessa esistenza. E con ciò diremmo che però sono per la maggior parte dei casi degli spazi impliciti, con idee, pensieri, immagini implicite.
Definiscono modalità di interazione, propongono azioni, immagini, concetti che sono simbolici in quanto prodotto del soggetto. Ma simbolici in quanto significanti ognuno per sé di altrettante aspettative. Anticipano discorsi, solleticano prassi, inducono a comunicazioni. 

Eppure … eppure nel globalizzato mondo moderno si opera sempre più supponendo dei saperi … saperi che si riducono (sviliscono) vieppiù a dei saper fare. Il bambino sa fare tal cosa e tal altra a una data età. A sette anni le strutture operatorie concrete hanno già visto la luce, a 18 mesi l’oggetto si fa permanente, e così via … 

Si suppongono allora molte cose e si pretende che tutto funzioni secondo le linee descritte nei vari apporti scientifici …
In questa deriva senz’anima le pedagogie della amministrazione trovano la loro inesauribile fonte nella “normalità operatoria”. Le scienze hanno studiato e descritto le tappe di sviluppo e di acquisizione di concetti e conoscenze … tanto vale allora ripercorrere quanto descritto per idealmente stimolare il bambino. Le scienze descrivono dei possibili sviluppi, ma i novelli amministratori pretendono quindi di sapere cosa il bambino desidera, di cosa il bambino necessita. 

“La cultura mediatica e globale ci propone nel neonato un sapere effettivo, già conosciuto e determinato sulla sua intelligenza (il bimbo a X anni é così e così ), come pure nella intelligenza dei suoi genitori, che si atterranno a sviluppare l’intelligenza dei figli partendo dalle stimolazioni, la risposta e lo stimolo”
(Il bambino dirimpetto la globalizzazione, Levin E.). 

“Osiamo immaginare che da questa globalizzazione culturale il bebè occupa una posizione di oggetto da stimolare, da tecnologicizzare e rendere adeguato; da addomesticare in accordo a parametri che si suppone intelligenti ed efficaci, e che (…) funzionano come specchio per i genitori; in altre parole se i bambini rispondono ad un dato stimolo, trasformano lo stimolatore (in questo caso i genitori) in uno stimolatore o genitore intelligente (…). Il bebè anonimo rappresenta così la crudele riproduzione della supposta intelligenza moderna e globale.”
(Il bambino dirimpetto la globalizzazione, Levin E.).

Eppure il bambino cresce in “un saper fare finzionale (saper fare finzioni) che è una pura supposizione, poiché si inventa nella scena e nello scenario creato col bambino”.
Ogni bambino è cosi allora un bambino diverso.
E la relazione che si gioca con lui è lo spazio di una rappresentazione dove il saper apprendere, l’insuccesso scolastico, la corsa sul cavallo dell’alfabetizzazione indicano uno scenario di finzioni.
“Il corpo di un bebè è un luogo scenico di rivelazioni e conquiste la cui fonte sono l’altro ed egli stesso.
In questo contesto se il corpo del bambino (per una patologia di base o per la posizione che il bambino occupa nel mito familiare o nel discorso della globalizzazione culturale) non rivela nulla, o rivela solamente la organicità o semplicemente è un oggetto cognitivo da stimolare intelligentemente o da lasciare che si sviluppi “liberamente”, non ci sarà una scena simbolica né una conquista possibile di sé”
(ibidem). 

Sostegno è uno spazio simbolico?

Il sostegno può essere uno spazio simbolico? Quando lo è, se lo è?
Questa domanda esplica a volte una dura realtà, perché a volte si dimentica il valore simbolico (sovrasimbolico) del lavoro di rieducazione. O perché a volte lo si nega in un approccio fra i più freddi e meccanizzati … quando non si tengono minimamente conto delle condizioni interne dell’utente, non lasciando spazio al suo desiderio. Che se è un desiderio di crescere e imparare, è magari un desiderio difficile da sopportare fra mille costrizioni, frustrazioni e sensi di colpa.
Quante volte viene chiesto al bambino: ti interessa, quanto sto per proporti? E quante volte si da per scontata la sua e la nostra presenza senza la definizione dello spazio comune, che è uno spazio transitivo oltre che transizionale.
Il luogo dell’interesse non nasce per incanto anche su di un incanto si tratta. 

“«Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al Mondo»”.
Quando la volpe incontra il Piccolo principe gli spiega che prendersi cura di qualcuno esige attenzioni, lentezza e rituali.
“«Che cos’è un rito»? disse il piccolo principe.
«Anche questa é una cosa da tempo dimenticata», disse la volpe. «… quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’é un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì é un giorno meraviglioso. Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza»”
(cap. XXI de Il Piccolo Principe). 

Quindi accanto al lavoro simbolico con il bambino ve ne è un altro, di ordine diremmo sovrasimbolico, o di livello superiore, di secondo livello, generale, o che dir si voglia, determinato dal contesto stesso del sostegno.

Due sono i livelli simbolici nella situazione del sostegno.
Il primo è quello che è in gioco in ogni seduta. Il fatto di svolgere un gioco simbolico per esempio esemplifica tale livello. Attraverso i personaggi messi in gioco, le azioni agite, e così via il bambino ci indica le sue difese, le sue paure e desideri, ci indica i suoi conflitti.
Ma il contesto stesso ha una valenza simbolica. O una sovra valenza. Una valenza generale, non puntuale ma locale, permanente. Il contesto si definirà allora per quello che si fa, ma anche per il suo decoro, le sue suppellettili, ecc …
Se ci si inoltra in una chiesa si sa cosa si va a fare (a parte del turismo più o meno culturale).Il luogo definisce una attività: quella della preghiera e una dimensione della spiritualità.
Se si va al mercato si va far compere. Si va alla banca per sviluppare ed accrescere i consumi e la catena denaro merce denaro.
In un museo si daranno sfogo i desideri estetici, culturali, storici, tecnici …
E’ la definizione del campo di gioco, in un campo si fanno determinati giochi (pallacanestro, calcio, disco su ghiaccio, su prato, ecc …)
Il contesto fornisce una cornice, senza cornice non c’è gioco. Il gioco ha sempre una cornice per renderlo possibile. Una cornice fisica, spaziale, temporale. Quello che si gioca su quel campo non lo si gioca uguale in un altro.
Qual’è la dimensione simbolica del sostegno?
Sostenere gli apprendimenti, sostenere il bambino?Attenzione che la prima attività non è sinonimo  dell’altra. Non sono la stessa cosa. L’una non fortifica automaticamente e necessariamente l’altra.
Si sostiene l’apprendimento? Allora il cerchio viene chiuso. Perché dell’apprendimento esistono varie concezioni e disparate didattiche si basano su approcci piuttosto neo-comportamentisti. Altre cercano invece di essere più attente alle multiple intelligenze (Gardner) o all’all’intelligenza emotiva e così via …
Dunque il bambino sa perché è tenuto ad essere sostenuto? Se va in chiesa sa che va a messa, ma poi, oltre un generico “sono debole a scrivere devo imparare …”?
Dunque cosa si può fare, e cosa non si può fare? Cosa si mette in gioco? Cosa è possibile/impossibile? Cosa ci si aspetta?
Un gioco (?) ripetitivo, meccanico … oppure un gioco intellettuale, un gioco del pensare. 

Sostegno come gioco

Questo contesto può dunque essere simbolico? Certamente, diremmo che sempre lo è? Ma no sempre veicola le stesse dinamiche gli stessi apprendimenti (leggere scrivere, far di conto) e meta apprendimenti . Come dire imparare, imparare ad imparare …
Certamente che il sostegno può essere un gioco e proporre giochi. Tutto dipende.
Potremmo quindi riflettere a cosa veicola ogni metodologia che perseguiamo. Ma potremmo ancor meglio fare se riflettessimo a quale metodologia utilizzare in ogni concreta situazione. 

Il desiderio

“così impari!”
Tanta educazione sembra basarsi sul dispiacere (“non siamo qui per giocare”). In verità si tratta di non far perdere la bussola del piacere/dispiacere.
Nella relazione educativa il prossimo (il mio prossimo) è fonte, è la fonte della mia conoscenza e il capitale di soddisfazione, il bagaglio di soddisfazione, è il capitale che permette di investire.
Senza capitale non si investe. Se vuoi costruire devi avere soldi per acquistare i materiali e progettare.
A volte i professori, i maestri, genitori o educatori (si fa per dire) in genere, pretendono risvegliare il desiderio di imparare dei loro alunni, asserendo che studiare è necessario per ottenere un miglior lavoro, o per guadagnare soldi, o per essere riconosciuti socialmente – falsando fra altre cose ciò che la realtà propone e dimostra – virtualizzando così l’atto e l’oggetto dell’apprendere. In questi casi, l’imparare, oramai slegato dal principio di piacere e al desiderio, diventa un rito sacrificale … 

Il soggetto in crisi non ha più una economia di soddisfazione, è una banca in crisi, è una economia stagnante o conosce l’involuzione. Il soggetto malato non sa più trarre soddisfazione (o non può ) da quanto fa.
L’economia di soddisfazione è una economia di qualità. 

E non è nel ruolo dell’operatore di sostegno di sostenere (scusate il bisticcio) questa ricerca dei propri passi perduti sulla strada dell’apprendere? 

Quando il desiderio e la percezione coincidono non c’è pensiero. s.; quando il bimbo vuole terminare una scheda c’è ripetitività, circolarità … Quando desiderio e percezione non coincidono c’è lo sviluppo di forme di pensiero …Il bambino ha un pensiero … tra due persone c’è un pensiero.
Il bambino giunge alla soddisfazione perché giunge alla soddisfazione con l’altro. Il bambino ha una autorità, una competenza che deve venire legittimata, riconosciuta e sostenuta, ecc … (il nostro lavoro, sig!).
La pulsione è presente nel pensiero che è memoria.
La psicopatologia è quella del bambino annoiato, del bambino distratto che guarda fuori dalla finestra o sbircia in continuazione quanto gli altri stanno facendo: bambini che non sanno trarre soddisfazioni, eccolo il grande spreco della scuola.
Il desiderio della soddisfazione è un desiderio raffinato e ricercato che solo pochi hanno. 

Non per niente ciò che viene principalmente valorizzato a scuola è la capacità di disciplina: questa si manifesta nell’apprendimento delle tecniche (leggere scrivere, far di conto), nell’ impegno diligente nello studio che richiede prevalentemente apprendimento mnemonico.
Certamente che uno dei ruoli del docente è quello di trasmettere i contenuti (delle conoscenze).Ma questa funzione di in-formare non deve essere l’unica e nemmeno quella più essenziale. Si tratta invece di creare le condizioni affinché l’alunno possa peregrinare, trovare delle affiliazioni …

 Se non “avessimo la maturazione di esigenze che non si possono realizzare immediatamente, non avremmo il gioco”
(Vygotskij, Immaginazione e creatività, pag. 120).

Il gioco è quindi una attività che permette di passare dai principi di desiderio a quelli di realtà, come passaggio intermediario che riesce in qualche maniera a salvaguardare il desiderio, realizzandolo in maniera simbolica.
“Il gioco deve essere sempre inteso come una realizzazione immaginaria, illusoria di desideri irrealizzabili”
(ibidem, pag. 120).

Ma un bambino non comprende tali motivi. Non sa perché viene intrapreso un dato gioco. Non lo fa consapevolmente.
Il gioco allora diventa un sostituto di un desiderio inappagabile.
Il bambino desidera rivedere e mantenere l’immagine del cavallo che trottava davanti a lui … desidera volare libero come un uccello … 

Il gioco dell’operatore

Parliamoci chiaro: molti non vogliono giocare.
Altri hanno smesso di imparare quando hanno smesso di giocare. Il massimo che sanno fare è ripeter sempre lo stesso gioco, che diventa una competizione.
Oppure l’operatore, il docente non conducono un gioco perché non hanno una cornice. Non hanno una cornice perché non hanno una teoria e una comprensione dell’apprendere (come gioco) e del (gioco come apprendere). Non hanno una teoria dell’apprendimento e del gioco che siano comprensive l’una dell’altre. Non hanno queste comprensioni perché spesso forse sono costretti (si sono auto costretti) alla ripetizione. 

Ma il non volere giocare (o potere) significa non giocare?
Un siffatto rifiuto: “io non gioco”, richiederebbe una attenta analisi, dei suoi sviluppi e delle sue stasi, delle sue premesse e delle sue conseguenze. può sopravvivere una epigenesi senza gioco?
Una epistemologia può sussistere senza aver giocato? L’immagine della non evoluzione …
Non si può non giocare. Come non si può non comunicare. Il rifiuto del gioco, il non gioco, definisce un altro gioco, certamente di un altro livello, al quale il soggetto si assoggetta diventando lo strumento di una prevaricazione. E’ come il rifiuto di respirare o di bere. Si può immaginare una epistemofilia senza soprassalti delle emozioni e del pensiero? 

Altri invece vogliono giocare. Esplicitamente intendiamo.
Se il gioco permette di liquidare, gestire, metabolizzare le ansie, i desideri, le pulsioni mal riposte, ecc … perché quando giochiamo ci sentiamo a disagio? O peggio ancora, mettiamo a disagio?
Giocando, il sacco dovrebbe alleggerirsi (almeno in teoria): invece si appesantisce. Perché?
Qui senz’altro si deve fare l’economia del desiderio e della frustrazione dell’operatore.
Qui si tratta di formazione, di sensibilità. 

La legittimazione

Ma si tratta anche di legittimazione, ovverosia dell’isolamento o del sentimento di abbandono provato dagli operatori, immersi nella realtà scolastica che spesso li ignora (li sopporta).
O si tratta di seduzioni tradite, di illusioni … 

Gli strumenti ludici (i giochi)

Quali sono i nostri/loro giochi:
meccanici, ripetitivi, o piuttosto di ruolo o simbolici?
Le carte, i giochi di dadi, i puzzles, le scatole di montaggio, il Lego, il computer, la plastilina, la sega, il martello e il filo a piombo, i giochi di strategia, i giochi supposti “intelligenti”, sapientino, …? 

Pensieri e affetti

Gli approcci neo-cognitivisti considerano unicamente gli aspetti cognitivi, strumentali o logici dello sviluppo.
Considerano la trasmissione delle conoscenze in maniera lineare, dove l’esperto fornisce dei modelli e il novizio lo integra. Questo avviene oggi nel maggior parte delle applicazioni della pedagogia della differenziazione.
A questa stregua si considererà l’avvento al simbolismo come una conquista del pensiero logico che porterà il bambino alla conquista di pensieri astratti di tipo algebrico …
L’affetto è considerato nel miglior dei casi come motore della relazione e mai come oggetto di studio, un supporto da studiare, una fondamenta da erigere, come la logica classificatoria o le codifiche linguistiche, matematiche, algebriche, musicali. 

Fare classi? Trovare prima di tutto il proprio posto e la propria identità. Cambiare criterio di classificazione? Quando l’identità sarà affermata sufficientemente, dunque quando il soggetto potrà farlo senza correre il rischio di perdere i propri riferimenti e di depersonalizzarsi. 

Categorizzare? prendere in considerazione uguaglianze e differenze, cercare e costruirle, dunque invitare alla curiosità sessuale evoca la pulsione di vedere e sapere. 

l’inizio e la fine

Un gioco inizia, finisce, ha un campo che lo include, lo circoscrive, lo delimita, lo limita, come dir si voglia.
Nel contesto di una relazione educativa, in particolar modo di sostegno, assistiamo sovente (molto sovente) a delle assunzioni senza termine.
In questi casi la fine dell’assunzione corrisponde con la licenza scolastica.
Invece di una trasmissione docente allievo il processo principale che si sviluppa è quello di un controllo senza fine. La perpetuazione di un rapporto asimmetrico di potere. 

La percezione di un gioco senza fine suscita angoscia. E’ lo spazio di una finzione che diventa realtà.
La mancanza di confini rende flessibili, vedi evanescenti, i riferimenti proposti. Il fondo perde la forma, i riferimenti diventano inesatti e perdono di coerenza. Non si sa più quale era la domanda iniziale. Questa si trasforma e la dipendenza si mantiene perpetuando una relazione dominate dominato. 

L’assenza di una scadenza si muove su due estremi.
La mancanza della fine, ma pure la mancanza dell’attesa. Il tutto e subito diventa la regola. Il principio di realtà non può prendere il sopravvento, ma nemmeno può trovare il suo vento che lo faccia salpare.
La produttività immediata non lascia il tempo a che un percorso transferenziale abbia a svilupparsi.
Si instaura una iperattività (una coazione) produttiva, nuove schede, nuovi compiti, ecc …che segnano il passo dell’ansia. Il processo non parte, non inizia.

Parte seconda

La rete (relazioni – transizioni)

Anche un viaggio nasce,
cresce, invecchia e poi muore.
Ma appena nato è già grande.
capace di usare la testa,
di farci e disfarci a suo piacimento.
Fra un’ora il nostro viaggio,
dopo mesi di gestazione,
vedrà finalmente la luce.
Ci riconoscerà?
Assomiglierà almeno un po’ anche a noi?
Ci vorrà bene?
Ci aspettiamo grandi cose da lui.


-Giuseppe Cederna, Il grande viaggio, Feltrinelli 2004

La parola è il microcosmo della coscienza.


-L. Vygotskji.

Tessere relazioni. La mappa diventa rete. La rete è una rete di passaggi, di transizioni. Ma la rete invita anche alla pesca. Chi dorme non piglia pesci. 

Tra i vari “luoghi” mappati possono essere tessute molteplici relazioni. Relazioni che, data la loro realizzazione transitiva (transito da un luogo all’altro), che si esplica quindi in un asse temporale, esprimono altrettanti momenti formativi.
Viaggiare … viaggiare da un luogo all’altro. ciò che è determinato sono i luoghi di partenza e di arrivo. Le strade invece sono molteplici, dirette o indirette. Come molteplici sono anche i mezzi di trasposto: nel nostro caso diremmo le teorie del gioco e dell’apprendimento. Per questo parliamo di rete.
Ma i nostri mezzi sono già stati scelti nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva con particolare riferimento a Piaget, Vygotskij e Winnicott. Mezzi che definiscono l’utilità e la centralità del gioco. Mezzi che ripudiano la contrapposizione tra gioco e attività serie. Mezzi che contestano la messa i quarantena del gioco, come la sua irregimentazione in contesti limitativi, meccanici, ripetitivi …

Teoria e prassi

“Se il problema di identificare teoria e pratica si pone, si pone in questo senso: di costruire su una determinata pratica una teoria che, coincidendo e identificandosi con gli elementi decisivi della pratica stessa, acceleri il processo storico in atto, rendendo la pratica più omogenea, coerente, efficiente in tutti i suoi elementi.”
Gramsci, Il materialismo storico, pag. 46

Per iniziare, fra molte relazioni, riproponiamo qui un quesito generale (la relazione è una domanda o, viceversa, la domanda tesse una relazione?).Un quesito relativo agli elementi fondanti del nostro agire. Lo facciamo adesso, senza per altro approfondirli, in quanto questo approfondimento attraversa idealmente tutto quanto questo lavoro. 

Quale relazione tra le teorie (implicite, ma magari pure esplicite), le prassi educative del gioco – e quindi dell’apprendimento – e didattica? Se l’istituzione, legittima un tipo di approccio all’apprendimento, piuttosto che un altro – all’apprendimento in generale, ancor prima che al disagio scolastico in particolare – definisce un contesto, il luogo spazio-tempo-fisico del gioco e dell’apprendimento, in quanto simbolico. Dunque questo spazio scolastico definito come simbolico ci significa quali sono le determinazioni possibili che proponiamo agli allievi. 

Concretamente: dove, come, quando, con chi è perché è possibile giocare? Questa domanda è quella che più direttamente ci farà giocare;quella che ci farà scegliere e preferire il gioco rispetto altri approcci d’insegnamento, e quella che ci farà preferire un gioco rispetto un altro; 

In quali mari navigare: ecco la posta in gioco … 

Chiudere il cerchio (rinchiudere il cerchio) o aprirlo a nuovi apporti (viaggi)

Nell’universo, l’inizio e la fine combaciano.  Si abbracciano sino a smarrirsi l’uno nell’altro. Qui di seguito troviamo alcune modalità del nostro incedere e per il nostro incedere. 

La rêverie, emozioni del bambino e l’insegnamento

Il (un) ruolo dell’operatore di sostegno é quello di essere un “buon-operatore”. Vi ricordate la buona madre di Winnicott?
“Il pensiero si può formare soltanto se è stata attuata una adeguata funzione di rêverie materna. La rêverie costituisce, infatti, un filtro per le emozioni angoscianti del bambino. Se tali emozioni saranno pensate per lui e gli verranno restituite elaborate e quindi più tollerabili, il bambino introietterà un modello che potrà poi utilizzare ogniqualvolta si troverà di fronte a situazioni angoscianti. Se la rêverie materna non è stata sufficiente per il bambino, egli sentirà di non essere in grado di trasformare l’emozione in un pensiero”
(A. Techel, A. Pendezzini, La farfalla insegna, le funzione delle emozioni nel processo di apprendimento, Armando, 1996, pag. 21). 

Essere un educatore “sufficientemente buono” non è una questione di tecniche, ne di apprendimenti e contenuti. E’ un posizionamento, una postura …
Nessuno impara a classificare classificando oggetti secondo la loro forma, il loro colore, o il loro spessore. Come nessuno impara a seriare ordinando dei blocchetti, delle figurine, o delle stanghette, ordinandole dalla minore alla maggiore.
Piuttosto, per il soggetto, si tratta di sentirsi appartenente, sentirsi incluso in una classe, “sono figlio di …”,”sono cugino di …”, “sono stupido”, “sono intelligente”, singolarizzando la propria differenza e quindi seriandola. 

Certamente, il ruolo di un docente è quello di trasmettere dei contenuti della conoscenza.
La funzione del contenimento, del fornire un contenitore (dare un luogo per accogliere e contenere), tratta della capacità (materna) di offrire una sorta di forma ai pensieri rudimentali del bambino, pensieri confusi, associati ad emozioni, sensazioni ed impulsi male compresi. La madre pensa per il bambino e pensando nomina, da significato, commenta …Questo contenimento è una rêverie.
La funzione della rêverie della madre consiste a ricevere le manifestazioni di disagio del suo bebé, quali possono essere le grida, i pianti, i colpi inferti, e ciò senza esserne troppo colpita. Le collega poi, dandole un senso, frutto della sua immaginazione, e restituisce questo senso, questa significazione o comprensione del disagio, sotto forma di parole adatte … 

“Le radici del linguaggio, sappiamo, iniziano nella holding materna quando, come sostiene Winnicott, una “madre sufficientemente buona” tiene e contiene nella mente il figlio, pensando per lui i pensieri che non è in grado di pensare”
(ibidem pag. 30). 

Transfert e transfert negativo

E’ notorio che gli allievi deboli, gli allievi problematici in genere sono veicoli e vittime di transfert negativi da parte degli operatori, docenti e quant’altro. Perché? Ma perché investono direttamente la sfera narcisistica dell’operatore. L’immagine di sé che hanno quale buon operatore, professionista che riesce s dominare ed intervenire attivamente e positivamente nei processi di insegnamento ed apprendimento.
Questi allievi diventano i vettori del loro (più o meno parziale, più o meno reale) insuccesso, diventano gli attori della loro impotenza (funzione della castrazione). Si ha a che fare dunque con i desideri di onnipotenza, di riuscita e dell’immagine di sé. La ripetitività dell’insuccesso interroga direttamente le immagini di sé dell’operatore.
Esso allora rischia di cadere in una triste dinamica. Per potere mantenere alta la propria considerazione di sé, ed evitare di entrare in un processo interrogativo, di ricerca del “proprio” supposto fallimento, che è poi un rischio identitario, espelle da sé l’aggressività che nasce stigmatizzando l’allievo debole. Si cade allora talvolta tragicamente in un gioco perverso, che è quello di perpetuare senza fine questo transfert negativo. Si nega l’aggressività interiore, stabilizzando questa dinamica, cronicizzandola,  o che dir si voglia,  si reifica l’insuccesso (espellendolo dalla dimensione relazionale). E’ una dimensione coattiva (coazione a ripetere).

oggetti e spazi transizionali

Gli spazi e gli oggetti transizionali sono stati descritti da D. Winnicott, al quale rimandiamo per un maggiore approfondimento. 
Per il lavoro che ci interessa vogliamo brevemente riferirci in particolar modo allo spazio transizionale. Ne abbiamo già scritto precedentemente in vari momenti. Cosa definisce?
Definisce uno spazio di incontro possibile, è uno spazio soggettivo.
Alla logica del discorso appartiene una dimensione di tipo esclusivo, dove l’io si contrappone al non-io, dove il soggettivo si distacca dall’oggettivo, dove pensiero ed affetto convivono in un abbraccio emotivo. così come già descritto alcuni bambini alla logica classificatoria preferiscono la logica narrativa (se così si può dire).Vale a dire invece di collezionare classi di oggetti o immagini preferiscono associare le medesime con criteri (vedi il riferimento a DDCP in “quarta spinta”).
Uno spazio terzo, un altro spazio, non esiste nel discorso scientifico. Eppure proprio di questo di spazio trattiamo. Spazio che la logica del discorso non deve escludere per essere se stessa e se vuole essere se stessa.Il bambino ha una capacità di creare, d’immaginare, d’inventare, di concepire degli oggetti e quindi di sviluppare con loro una relazione affettuosa.
In una dimensione di apprendimento-insegnamento abbiamo a che fare con una dimensione d’incontro ove docente e discente creano, immaginano, inventano ecc …
Accanto all’oggetto logico che presuppone il loro stare insieme, questa dimensione sviluppa uno spazio illusorio. Nella relazione che si sviluppa fra loro ognuno metterà qualcosa di personale che l’altro solo nei migliori dei casi potrà immaginare. Si tratta quindi dei contenuti soggettivi che vengono a svilupparsi all’interno delle materie, delle storie, dei sogni, delle immaginazioni ad esse collegate …
Questo spazio è uno spazio vago. Si situa fra i soggetti, che diventano l’incarnazione del non io. 

Una associazione diretta tra ciò che l’allievo sente nella lezione e un episodio della propria vita: eccolo lo spazio transizionale.
Transizionale, transizione, transito …
Indichiamo un movimento da un luogo all’altro. Ma appena uscito da un luogo ancora no è entrato. Uscito dalla soggettiva preoccupazione per entrare in qualcosa d’altro, non-io.
Transizione … un movimento, è la via che si fa con l’andare, è ancora l’idea del viaggio con tutte le sue incognite.
La creazione dello spazio e del discorso logico portano alla dissoluzione di quello soggettivo?
Non lo si può dire assolutamente. Ma quando un docente illustrando un testo ai suoi allievi, magari per insegnar loro a leggere, come dimenticare i fantasmi e i desideri che i contenuti di quella lettura hanno tacitamente suscitato? 

spazi prossimali e altri luoghi di incontro

Per approfondire il concetto di spazio prossimale o zona prossimale di sviluppo bisogna riferirsi a L.S. Vygotskij.
Questo concetto vuole definire una zona ma anche delle condizioni dell’apprendere. Questa zona e queste condizioni si osservano e si realizzano essenzialmente attorno alla distanza tra conoscenze del bambino (a quale punto del programma, sviluppo, stadio o quant’altro é arrivato) e conoscenze che deve ancora apprendere. Se il livello di quest’ultime é troppo distante dal livello raggiunto dal bambino ecco che ogni intervento pedagogico-didattico si vanificherà nella valutazione negativa del bambino: é ignorante, non riesce ad apprendere, non s’impegna, ecc …
Potremmo dire, solo per esemplificare: come vi sono degli stadi di sviluppo, ci dovrebbero essere degli stadi epigenetici; a ogni stadio dello sviluppo dovrebbe idealmente  corrisponderne uno nei programmi, dove il calendario dei nuovi insegnamenti non rincorre il programma ma rispetta il ritmo dell’individuo.
Trattiamo allora della definizione del possibile e del necessario nell’apprendimento.
Possibile: quanto il bambino può apprendere di nuovo (nella quantità delle acquisizioni, ma anche dalla qualità, il livello per intenderci).
Necessario: quanto il bambino deve assolutamente ritrovare di “vecchio” nella proposta, per non sentirsi in alto mare e credere di non sapere più nulla. 

Il “conflitto cognitivo” é un concetto sviluppato dalla scuola di psicologia sociale ginevrina e ripreso da varie psicologhe e psicologi in Italia.
Si riferisce a situazioni ove il bambino viene messo o si trova in contraddizione (alle sue rappresentazioni se ne contrappongono così delle altre). L’interesse del conflitto sta nel fatta che le rappresentazioni, o gli schemi operatori, dei bambini in confronto tra di loro, passano da un livello inferiore a uno superiore. Dunque sarebbe il confronto con altri che porta al superamento di sé stessi. Il modello teorico sottostante a questa idea considera che il bambino impara grazie a questi confronti: la contraddizione é il motore e l’insegnamento (l’apprendimento) sarebbe ben poca cosa senza di essi.
Con il concetto di “co-costruzione” si vuole ricordare e dimostrare la valenza euristica del confronto tra i bambini. In particolare due sono i punti forti: il sapere della classe é superiore al sapere dei singoli bambini; e, quello che ci interessa attualmente, i bambini costruiscono meglio e di più interagendo tra di loro (da qui l’importanza degli approcci attivi della argomentazione, nel senso che questa sia diretta dal docente e non lasciata al caso, pur non essendo costrittiva).
Se l’apprendimento si realizza nelle relazioni: con il docente, con i compagni ma anche con la realtà, é un dialogo con ognuna di queste comparse. E’ per questo dialogo che si fa e non fine a sé stesso.

3) le carte del sostegno

Tradizioni (Favole)
La parola e l’atto non si erano mai incontrati.
Quando la parola diceva di sì, l’atto diceva di no.
Quando la parola diceva di no, l’atto diceva di sì.
Quando la parola diceva più o meno, l’atto diceva meno o più
Un giorno, la parola e l’atto s’incontrarono per la via.
Siccome non si conoscevano, non si riconobbero.
Siccome non si riconobbero, non si salutarono.


-Edoardo Galeano, Il manifesto 17, 12, 2005

Se vogliamo caratterizzare un qualsiasi processo dobbiamo conoscerne almeno le proprietà seguenti:

  • conoscere le proprietà globali, vale a dire direzione sviluppo, la weltanschaung, ecc …,
  • conoscere le proprietà puntuali, vale a dire le proprietà che si manifestano in qualsiasi istante,
  • conoscere le caratteristiche locali, vale a dire quelle che si manifestano concretamente in una situazione data concreta.

Alcuni elementi – di tipo globale e locale – pensiamo di averli descritti trattando rispettivamente dei quesiti generali e tracciando la mappa. Pensiamo così di avere una rete discreta.
A questo punto dovremmo cominciare a descrivere le relazioni fra i vari concetti della mappa, dovremmo proporre dei percorsi tra l’uno e l’altro concetto, Dovremmo definire delle partenze e degli arrivi (ma si sa, i percorsi sono quantitativamente superiori alle poste). 

Per quanto concerne le proprietà locali ci rendiamo poi conto di non essere in grado di fornire ulteriori elementi. Fra le caratteristiche locali ci son pure gli stessi giocatori! con le loro più o meno esplicite e parziali conoscenze e competenze …
Abbiamo già citato Borges e Casares, per evitare i pericoli di una mappatura troppo aderente… 

A questo punto come procedere?
Come diventare  e potere essere giocatori, senza perdersi in un lavoro accademico, ripetitivo, meccanizzante? Come nel contempo fare interagire concretamente le varie proprietà (globali, puntuali, locali) in un lavoro di ricerca e approfondimento?
Sta ai giocatori a giocare!
Proponiamo un gioco di carte. 

Il procedimento: un gruppo di giocatori (da un minimo di tre) riceve il mazzo di carte. Ogni giocatore (o gruppo) prende dal mazzo sparpagliato un numero di carte convenuto in partenza. Il minimo deve però essere di due. Più aumentano le carte e più complicato si farà il gioco. Ma anche più ricco, variegato, intrigante …
Pescate le carte, il giocatore (o il gruppo) prova a tessere un legame tra di esse. Un percorso personale che sappia dare un senso all’abbinamento. E che magari sappia dare un’esperienza. Noi qui non l’abbiamo fatto; lo lasciamo fare ai lettori. Un invito al viaggio. Questo può essere l’ideale ludico seguito e approfondimento di questo capitolo.

Le regole: sono quelle determinate dalle dimensioni della rêverie, dallo spazio prossimale, da quello transizionale e infine dal transfert. 

Quindi triplice è lo scopo del gioco delle carte.

  • tessere una relazione tra una carta e l’altra, descrivere quale il legame possibile, leggere, punteggiare, interpretare alla luce delle proprietà e delle dinamiche conosciute;
  • esemplificare tale relazione con un caso clinico, un esperienza diretta;
  • proporre un gioco “risolutore” del caso presentato. Attenzione: che il gioco sia considerato sotto il suo duplice aspetto. Vale a dire:
    • quale gioco proporre con l’utente, ma pure, e contemporaneamente
    • considerare cosa significa giocare a quel gioco e con quel gioco; 

Unico è il sogno che si vuole perseguire: tornare a giocare. 

Nel microcosmo del sostegno sapere cosa si fa e perché lo si fa aiutano l’ecologia dell’intervento, e a una maggiore consapevolezza e prassi creativa.

Chi dorme non piglia pesci.

Giovanni Galli, Daniela Sodi

Appendice – filiazioni

A questo punto saremmo giunti alla fine. Per chi invece, non appagato, volesse caricare ulteriormente il bagaglio proponiamo quello che è un terzo approccio al gioco e al giocare: è quello relativo  alle nostre ascendenze.
Presentiamo quindi alcune schede relative a vari autori che ci hanno sedotti.

Scheda 1) A. Gramsci, Il materialismo storico
 “Teoria e pratica. … da ricercare, analizzare e criticare la diversa forma in cui si è presentato nella storia delle idee il concetto di unità della teoria e della pratica, poiché pare indubbio che ogni concezione del mondo e ogni filosofia si è preoccupata di questo problema. Affermazione di san Tommaso e della scolastica: “Intellectus speculativus extensione fit praecticus“, la teoria per semplice estensione si fa pratica, cioè affermazione della necessaria connessione tra l’ordine delle idee e quello dell’azione. Aforisma del Leibniz, tanto ripetuto dagli idealisti italiani: “Quo magis speculativa, magis practica” detto della scienza. La proposizione di G.B. Vico “verum ipsum factum” tanto discussa e variamente interpretata (cfr. il libro del Croce sul Vico e altri scritti polemici del Croce stesso) e che il Croce svolge nel senso idealistico che il conoscere sia un fare e che si conosce ciò che si fa, in cui “fare” ha un particolare significato, tanto particolare che poi significa niente altro che “conoscere” cioè si risolve in una tautologia (concezione che tuttavia deve essere messa in relazione colla concezione propria della filosofia della prassi). 

Poiché ogni azione è il risultato di volontà diverse, con diverso grado di intensità, di consapevolezza, di omogeneità con l’intiero complesso di volontà collettiva, è chiaro che anche la teoria corrispondente e implicita sarà una combinazione di credenze e punti di vista altrettanto scompaginati ed eterogenei. Tuttavia vi è adesione completa della teoria alla pratica, in questi limiti e in questi termini. Se il problema di identificare teoria e pratica si pone, si pone in questo senso: di costruire su una determinata pratica una teoria che, coincidendo e identificandosi con gli elementi decisivi della pratica stessa, acceleri il processo storico in atto, rendendo la pratica più omogenea, coerente, efficiente in tutti i suoi elementi, cioè potenziandola al massimo, oppure, data una certa posizione teorica, di organizzare l’elemento pratico indispensabile per la sua messa in opera. L’identificazione di teoria e pratica è un atto critico, per cui la pratica viene dimostrata razionale e necessaria o la teoria realistica e razionale. Ecco perché il problema della identità di teoria e pratica si pone specialmente in certi momenti storici così detti di transizione, cioè di più rapido movimento trasformativo, quando realmente le forze pratiche scatenate domandano di essere giustificate per essere più efficienti ed espansive, o si moltiplicano i programmi teorici che domandano di essere anch’essi giustificati realisticamente in quanto dimostrano di essere assimilabili dai movimenti pratici che solo così diventano più pratici e reali. 

Struttura e superstruttura. La proposizione contenuta nell’introduzione alla “Critica dell’economia politica” che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura nel terreno delle ideologie deve essere considerata come un’affermazione di valore gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico-pratico dell’egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l’apporto teorico massimo di Ilic alla filosofia della prassi. Ilic avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico. Con linguaggio crociano: quando si riesce a introdurre una nuova morale conforme a una nuova concezione del mondo, si finisce con l’introdurre anche tale concezione, cioè si determina una intera riforma filosofica”(pag., 44-46). 

Scheda 2) C Hutt, Gioco e comportamento esplorativo nei bambini, in Bruner. vol. 2
“Esplorazione e gioco sono spesso considerati come un’unica classe di comportamenti. (…) Il termine gioco é spesso usato insieme o al posto del termine esplorazione” (pag. 240)
“Il gioco, d’altro canto, si verifica solamente in un ambiente conosciuto, e quando l’animale o il bambino sente di conoscere le proprietà dell’oggetto; ciò risulta dal graduale rilassamento dell’atteggiamento, evidenziato non solo da cambiamenti nell’espressione facciale, ma anche da una maggiore variabilità e diversità delle attività. Nel gioco l’accesso viene spostato dalla domanda «che cosa fa questo oggetto?»  a «che cosa posso io fare con quest’oggetto?». Mentre l’investigazione è un referente‑stimolo, il gioco è un referente‑risposta” (pag. 251)
“Dunque nell’infanzia è forse difficile distinguere tra risposta esplorativa e risposta ludica. Nel corso dell’ontogenesi, tuttavia, queste due attività assumono direzioni diverse e diventano più facilmente separabili, finché nell’adulto c’è una marcata differenza tra queste due attività che sono spesso di tipo estremamente ritualizzato”. (pag. 252)
“Gli studi sull’esplorazione si sono occupati di almeno due diversi tipi di comportamento aventi delle funzioni alquanto contrarie. In termini psicofisiologici l’esplorazione diversiva è stata vista da Hebb (1955) come un tentativo di evitare stati di monotonia o di basse attivazione; da Fiske e Maddli (1961) come un tentativo di variare la stimolazione al fine di sostenere un certo livello di attivazione; e da Berlyne (1960) come uno sforzo di aumentare l’input sensorio così da evitare uno stato di noia o di forte eccitazione. L’esplorazione investigativa o specifica, d’altro lato, cerca di ridurre l’incertezza e perciò l’eccitazione o attivazione prodotte dalla nuova o complessa stimolazione. Il gioco, nella sua morfologia, caratteristiche e funzioni appare spesso più simile all’esplorazione diversiva che all’esplorazione specifica”. (pag. 253) 

Scheda 3) C. Hutt, R. Bhavnani, Predizioni del gioco, in Bruner. vol. 2
“In definitiva, la mancanza di comportamento esplorativo nei bambini piccoli sembrava essere in rapporto con una mancanza di curiosità e di spirito di avventura nei ragazzi e con difficoltà nella personalità e nell’adattamento sociale nelle ragazze. Questa interpretazione è rafforzata dai risultati dei test di creatività: i maschi N. E. fornivano dei risultati considerevolmente più bassi di quelli dei maschi E., ma non c’era differenza tra il rendimento delle femmine N. E. e quello delle femmine E. Forse è più importante rilevare che una certa inventiva e creatività nel gioco infantile risulta correlata con la facilità di disporre di pensiero divergente. Questa relazione è risultata maggiore e più diretta nei maschi che nelle femmine: quanto più il bambino era inventivo da piccolo tanto più era probabile che avesse un pensiero divergente da grande”. (pag. 257) 

Scheda 4) K. Sylva, J. S. Bruner, P. Genova, Ruolo del gioco nella soluzione di problemi in bambini dai 3 ai 5 anni, in Bruner. vol. 2
“In conclusione, sembra allora, che coloro che giocano prima di tentare la soluzione del problema risultino migliori per le seguenti ragioni.
1. Risolvere i problemi richiedeva iniziativa personale e i nostri bambini che giocavano erano i soli, negli esperimenti, le cui azioni avessero un avvio personale.
2. L’invenzione di un attrezzo (come di altre forme di soluzione del problema) richiede una disposizione ordinata delle azioni che la costituiscono e che sono quindi implicate in essa. I giocatori erano i soli che avessero l’occasione di esplorare delle disposizioni ordinate alternative.
3. Il gioco riduce la tensione nell’anticipazione del successo e dell’insuccesso. I nostri giocatori, sottoposti ad una minore tensione, erano in grado di procedere con minore frustrazione e timore d’insuccesso ‑ essi erano indirizzati più direttamente allo scopo. Essi potevano perciò trarre profitto dai suggerimenti ed accostarsi alla soluzione gradualmente e senza rinunciare. Per ripetere il punto dal quale siamo partiti, l’effetto del gioco antecedente sembra essere presente non solo nell’esercizio di combinazione, ma anche nel fatto che è cosi possibile, nell’ambito di un dato compito, spostare l’accento dai fini ai mezzi, dal prodotto al procedimento” (pag. 301). 

Scheda 5) Gibello B., L’enfant à l’intelligence troublée
La notion de contenants de pensée est étrangère à la sémiologie classique. Elle se révèle en pratique d’une importance au moins égale à la notion de niveau intellectuel, et elle permet de rendre compte de multiples aspects de la pathologie mentale usuellement méconnus.
La notion de contenu de pensée est familière à chacun: c’est ainsi qu’on désigne les images, les sentiments, les mots ou les énoncés complexes occupant notre esprit. Il est implicite que ces contenus de pensée soient pris dans des structures leur servant de contenant: des structures linguistiques, des structures logiques et les structures fantasmatiques, contenants usuellement non conscients ou inconscients.
Il peut sembler arbitraire de séparer la capacité intellectuelle de la structure des contenants de l’intelligence. Cette distinction ne s’impose pas à première vue. Cependant, contrairement à ce que l’on aurait pu imaginer, il n’existe pas de corrélation entre l’indice d’homogénéité du raisonnement et les résultats aux tests de niveau intellectuel. Bien plus, et contrairement à ce à quoi on aurait pu s’attendre, il n’existe pas non plus de corrélation, aux tests de Wechsler, entre l’écart des QI Verbal et Performance d’une part, le nombre de décalages d’autre part. Ce dernier résultat va à l’encontre d’un mythe répandu depuis quelques années, suivant loquel il serait inutile de faire passer l’EPL ou toute autre épreuve piagétienne pour apprécier les décalages, dans la mesure où l’écart entre QI Verbal et Performance permettrait fort bien de l’apprécier. (pagg. 71-72). 

scheda 6) Bencivenga, Giocare per forza. Critica della società del divertimento
“E non è finita. Per me non c’è contrasto tra il gioco e un’attività «seria».Anzi, il gioco è in un certo senso l’attività più seria, l’unica a cui ci si dedichi senza altro per la testa, senza altri obiettivi, in assoluta e totale concentrazione. Se sto in ufficio all’unico scopo di guadagnare lo stipendio non ci sarà da stupirsi se cerco di fare il meno possibile, se alla prima occasione mi imbosco o scendo a prendere un cappuccino o mi do malato e vado a sciare. Tanto lo stipendio me lo danno lo stesso ed è quello l’unica cosa che conta; in ufficio l’importante è passare il tempo, e meglio per me se ci riesco senza impegnarmi troppo. Quando gioco, però, quando mi dedico a un’attività fine a se stessa, questa mancanza di serietà non avrebbe senso: quel che faccio lo faccio perché mi piace, dunque farlo più a lungo e farlo meglio mi farà più piacere. Dunque non vorr” lasciarmi distrarre, tollerer” a malapena ogni interruzione, sfrutter” al massimo le mie capacità (…). Come quando un bambino è assorto in una sua pantomima, o intento a battere il proprio record personale di palleggi, o perso nei meandri di un videogioco; provate a parlargli, anche soltanto a chiedergli come sta andando la cosa, e se non vi manda al diavolo, è davvero molto beneducato” (pag. 12-13). 

Scheda 7) Piaget J., La formation du symbol
Il gioco opera delle sostituzioni (di un oggetto con un altro). Tramite la sostituzione esplora i significanti e il loro sistema. 

“Lorsque donc, au cours du sixième stade, le schème proprement symbolique apparait par assimilation d’un objet quelconque au schéme joué et à son objectif initial (par exemple par assimilation de la queue d’un âne à un oreiller et au schéme de s’endormir), cette nouveauté se présente en réalité comme le terme sensori-moteur ultime d’une différenciation progressive entre le «signifiant» et le «signiflé»: le signifiant est alors constitué par l’objet choisi (la quene de l’âne) pour représenter l’objectif initial du schéme ainsi que par les monvements exécutés flctivement sur lui (imitation du sommeil), tandis que le signifié n’est autre que le schème lui-mme tel qu’il se déroulerait sérieusement (s’endormir en réalité) ainsi que par l’objet auquel il est appliqué habituellement (l’oreiller). Les mouvements servant à s’endormir ne sont donc plus seulement sortis de leur contexte ordinaire, et simplement esquissés comme par allusion, ainsi que dans les ritualisations ludiques des stades IV et V, ils sont appliqués à des objets nouveaux et inadéquats, et déroulés par une imitation minutieuse, mais entièrement flctive. I1 y a donc représentation puisque le signifiant est dissocié du signifié et que celui-ci est constitué par une situation non perceptible et simplement invoquée au moyen des objts et gestes présents. Mais cette représentation symbolique, comme dans le cas des imitations différées, n’est que le prolongement de toute la construction sensori-motrice antérieure (pag. 107)”. 

Scheda 8) Kuhn T., La struttura delle rivoluzioni scientifiche
“La transizione da un paradigma in crisi ad uno nuovo, dal quale possa emergere una nuova tradizione di scienza normale, è tutt’altro che un processo cumulativo, che si attui attraverso un’articolazione o un’estensione del vecchio paradigma. […]. Questi esempi ci guidano verso il terzo e più fondamentale aspetto dell’incommensurabilità tra paradigmi in competizione. In una maniera che sono incapace di spiegare ulteriormente, i sostenitori di paradigmi opposti praticano i loro affari in mondi differenti. […]. I due gruppi di scienziati vedono cose differenti quando guardano dallo stesso punto nella stessa direzione. ciò per”, vale la pena ripeterlo, non significa che essi possano vedere qualunque cosa piaccia loro. Entrambi guardano il mondo, e ciò che guardano non cambia. Ma in alcune aree essi vedono cose differenti, e le vedono in differenti relazioni tra loro. […]. Per la stessa ragione, prima che possano sperare di comunicare completamente, uno dei due gruppi deve far l’esperienza di quella conversione che abbiamo chiamato spostamento di paradigma. Proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, il passaggio da un paradigma ad uno opposto non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da un’esperienza neutrale. Come il riordinamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non necessariamente in un istante), oppure non si compirà affatto. […] Il trasferimento della fiducia da un paradigma a un altro è un’esperienza di conversione che non può essere imposta con la forza (pagg. 109-112, 139, 151, 179-183).” 

Scheda 9) Feyerabend P., Contro il metodo
“DOMANDA: Professor Feyerabend, il suo libro più famoso e conosciuto, Contro il metodo, mette in discussione l’immagine convenzionale di ciò che chiamiamo “scienza”. Ci può dire qual è il senso della sua proposta e quali erano gli obiettivi che lei si poneva con la pubblicazione di quest’opera?
In realtà, a leggerlo con attenzione, il mio libro intitolato Contro il metodo è indirizzato principalmente contro la cosiddetta “filosofia della scienza” che pretende di rendere semplice quanto di complesso è affermato dagli scienziati. In quel libro cerco di individuare il metodo delle scienze e scopro che, in realtà, non ne hanno uno. Non si trattava di una scoperta sconvolgente: lo era solo per la comunità filosofica.
Oggi la maggior parte degli storici della scienza danno per scontato, mi pare, che lo scienziato non si limita semplicemente a costruire una regola per poi pretendere che essa sia sempre seguita. Inoltre, la parola scienza copre molte realtà diverse. C’è la macroeconomia; c’è Konrad Lorenz con le sue anatre; c’è la fisica; c’è la topologia, la quale pure è una scienza; e c’è anche la teologia. Anzi, come, è noto, la teologia fu una delle prime scienze. Sono tutte la stessa cosa? Nient’affatto!
Che senso ha, allora, il discorso sulla “verità” della scienza? Che senso ha parlare della scienza come unità? Per me, si tratta solo di fantasmi. Mi rendo conto del valore pratico della “verità” nelle pubbliche relazioni: se uno dice che la verità è in un certo posto, qui affluisce subito il denaro, qui si concentrano gli  sforzi di studio, e così via. Ma a parte questo – e a parte gli usi pratici della parola verità, come nell’espressione: “Dimmi la verità, davvero hai avuto una relazione mentre ero fuori?” – le questione riguardanti la verità della scienza o del mito non hanno per me molto senso. Per me ha senso, invece, che una società, un gruppo, dedichi tutto se stesso alle scienze – al plurale – o a qualche mito, poiché di entrambi abbiamo bisogno.
Oggi, per esempio, alle scienze chiediamo di rispondere a finalità ecologiche, perché siamo assediati dai rifiuti prodotti della scienza. Siccome solo gli scienziati possono manipolare i rifiuti della scienza, abbiamo ovviamente bisogno di loro. … un po’ come se uno scoprisse un particolare tipo di vernice indelebile per la tinteggiatura dei muri; se a un certo punto ci stanchiamo di quel particolare colore e lo vogliamo togliere, avremo bisogno degli stessi personaggi che l’avevano applicato, perché solo loro sanno qualcosa di quella vernice. Questa è oggi una delle ragioni per cui abbiamo ancora bisogno della scienza. Quel che voglio dire è che a molte delle scienze che si vedono oggi in giro non farebbe male un pizzico di poesia per rimettere le cose in una giusta prospettiva. Anche il mito può essere oppressivo quanto una teoria scientifica. E in realtà i miti sono stati nocivi, hanno portato la gente in strani stati mentali e l’hanno indotta a comportamenti stravaganti. Si pensi, ad esempio, al mito nazista, che pure non è un mito in grande stile.
Bisogna, dunque, essere più precisi. Non si può parlare genericamente di scienza e mito, poiché ci sono diversi tipi di mito, come ci sono diversi tipi di scienza.  Questioni generali come “scienza o mito” non hanno molto senso. Eppure proprio di questo genere sono le questioni di cui si occupano i filosofi….
Un pilota di auto da corsa non saprebbe dire in dettaglio tutto quello che sa; può solo dimostrarlo guidando l’auto in alcune situazioni estreme. Lo stesso vale per gli scienziati. Alcuni storici della scienza sostengono che ormai è molto difficile stabilire il punto di distinzione e connessione fra il livello sperimentale e quello della cosiddetta teoria. In realtà, la loro relazione include molti elementi arbitrari, le cosiddette approssimazioni.
A volte un’acquisizione, un certo risultato scientifico comporta una specie di accordo “politico” fra diversi tipi di partiti, in cui uno cede qualcosa di qua, un altro cede qualcosa di là, e poi, “finalmente si può pubblicare”, come si dice” (http://www.emsf.rai.it/aforismi/aforismi.asp?d=72).

Scheda 10) Waddell M., Mondi interni
“In termini molto semplici, la questione potrebbe essere posta nel modo seguente: Le identificazioni primarie del bambino (con figure significative sul piano esterno e le loro successive rappresentazioni interne) sembrano essere di tipo adesivo, proiettivo o introiettivo. E’ chiaro che fra le tre c’è una oscillazione costante (…)
.E’ la predominanza di uno dei modi a decidere se l’apprendimento avviene per imitazione, con scimmiottamenti e ripetizioni meccaniche, secondo la modalità adesiva, oppure tramite angosciosi tentativi del bambino di essere qualcuno che non è, agendo in modo proiettivo in quel ruolo o persino sperimentando il Sé come se fosse l’altro; oppure attraverso la ricerca di comprensione che il bambino compie attingendo alla sua capacità di adattamento e alla sua esperienza di un senso interno e sicuro del Sé, derivato dalla capacità di identificazione introiettiva con qualità della mente buone e premurose” (pag. 97). 

Scheda 11) Berger M., Les troubles du développement cognitif
Berger tratta di ragazzi con un QI basso ma generalmente superiore agli 80 punti, senza inibizioni nevrotiche predominanti, senza un quadro psicotico. Ragazzi segnalati per le loro difficoltà d’apprendimento.
Distingue fra:
difficoltà di rappresentazione di sé,
patologie narcisistiche primarie,
difficoltà d’appropriazione,
disprassie,
e fragilità narcisistiche,
(cfr. op. cit., pag. 8-10). 

Scheda 12) Vygotskij L., Immaginazione e creatività nell’età infantile
“Il primo paradosso del giuoco è che il bambino opera con un significato staccato, ma in una situazione reale. Il secondo paradosso è che il bambino segue nel giuoco la linea della minore resistenza; cioè fa ciò che desidera di più , perché il giuoco è legato al piacere. Nello stesso tempo impara ad agire secondo la linea della maggiore resistenza: sottomettendosi alle regole, i bambini rinunziano a ciò che vogliono. Poiché la sottomissione alle regole e la rinunzia ad agire secondo un impulso immediato nel giuoco è la via verso il massimo piacere. Se prendete i bambini nel giuoco sportivo, vedrete la stessa cosa. Fare le gare di corsa è difficile perché i partecipanti sono pronti a scattare dal loro posto quando dite «1, 2..» e non resistono fino al 3. Evidentemente la sostanza delle regole interiori è che il bambino non deve agire secondo l’impulso immediato.

Il giuoco pone continuamente, ad ogni passo, l’esigenza di agire contro l’impulso immediato, cioè di seguire la linea della maggiore resistenza. Vorrei correre immediatamente, questo è chiaro ma le regole del giuoco mi ordinano di fermarmi. Perché il bambino non fa quello che adesso avrebbe voglia di fare? Perché il rispetto delle regole in tutta la struttura del giuoco promette un piacere così grande da superare l’impulso immediato; in altre parole, come dichiara uno studioso ricordando le parole di Spinoza, «l’affetto può essere vinto soltanto da un altro affetto, ancora più forte». In tal modo, nel giuoco si crea una situazione nella quale, come dice Nohl, sorge un duplice piano affettivo. Il bambino, per esempio, piange nel giuoco in quanto paziente, ma si rallegra come giocatore. Il bambino rinunzia nel giuoco all’impulso immediato, coordinando il suo comportamento, ogni suo atto con le regole del giuoco. Lo ha descritto benissimo Gross. La sua idea è che la volontà del bambino nasce e si sviluppa dal giuoco con regole. In realtà il bambino, nel semplice giuoco degli stregoni, descritto da Gross, per non perdere deve sfuggire allo stregone; nello stesso tempo egli deve aiutare il suo compagno e liberarlo dall’incantesimo. Quando lo stregone lo tocca, egli deve fermarsi. Ad ogni passo il bambino si trova in conflitto tra la regola del giuoco e quello che farebbe se potesse agire immediatamente: nel giuoco egli agisce contro ciò che vorrebbe. Nohl ha mostrato che la maggior forza di autoregolazione sorge nel bambino durante il giuoco. Egli ha trovato il massimo della volontà nel bambino nel senso della rinunzia alle pulsioni immediate, in un giuoco con le caramelle che i bambini non dovevano mangiare, secondo le regole del giuoco, perché esse rappresentavano cose non commestibili. Di solito il bambino prova la sottomissione alla regola nella rinunzia a ciò che vuole, ma qui la sottomissione alla regola e la rinunzia ad agire secondo un impulso immediato è il cammino verso il massimo piacere. 

Un carattere essenziale del giuoco è quindi la regola, divenuta affetto. «L’idea, divenuta affetto, il concetto trasformatosi in passione» è il prototipo di questo ideale di Spinoza nel giuoco, regno della spontaneità e della libertà. Il rispetto della regola è fonte di piacere. La regola vince, come impulso più forte (cfr. Spinoza: l’affetto può essere vinto da un affetto più forte). Ne deriva che questa regola è una regola interiore, cioè una regola di autolimitazione, di autodeterminazione, come dice Piaget, e non una regola alla quale il bambino si sottomette come ad una legge fisica. In breve, il giuoco dà al bambino una nuova forma di desiderio, cioè gli insegna a desiderare rapportando i desideri al suo «io» fittizio, cioè al suo ruolo nel giuoco e alla sua regola, perciò nel giuoco sono possibili le più alte conquiste del bambino, che domani diventeranno il suo livello medio reale, la sua morale” (pag. 134-135). 

Scheda 13) Singer e Singer, Nel regno del possibile
Da pagina 187 a pagina  191 riportano una serie di situazioni sperimentali dello spazio prossimale secondo Vygotskij.
“Scriveva Vygotskij: «Nel gioco un bambino si comporta sempre in modo superiore alla sua età media, al di sopra del suo comportamento quotidiano; nel gioco è come se lui fosse un palmo più alto di se stesso. Come nel fuoco di una lente di ingrandimento, il gioco contiene tutte le tendenze evolutive in una forma condensata ed è in sé una fonte principale di sviluppo»” (pag. 184). 

Scheda 14) Singer e Singer, Nel regno del possibile
Questo é un bel libro che raccoglie un sacco di studi sul gioco in età evolutiva e sui suoi rapporti con l’educazione familiare da un lato e scolastica dall’altro. Presenta poi anche delle correlazioni con lo sviluppo linguistico, i sessi e le origini socio culturali.
Vedi in particolare da pagina 162 a pagina 274. 

“Gli studi citati finora sono stati condotti indipendentemente e senza una sistematica uniformità delle procedure, ma sembrano indicare che maggiori occasioni di gioco simbolico, sia spontaneo che guidato, favoriscano l’uso efficace di temi narrativi più complessi nel gioco e stimolino elaborazioni tematiche in risposta al materiale presentato dall’adulto  Sembra proprio che siamo alla soglia di scoperte importanti, ricche di implicazioni didattiche e pedagogiche.
Preparare i bambini all’esperienza scolastica o anche più specificamente agli apprendimenti linguistici e aritmetici può essere più produttivo se avviene sotto forma di giochi e narrazioni capaci di suscitare la loro partecipazione attiva” (pag. 174). 

” … quasi tutti gli autori che hanno studiato gli effetti di interventi adulti sul comportamento ludico insistono sull’importanza del tipo di guida e orientamento che si offre al bambino e sulla necessità di tener conto del suo livello cognitivo
.…
Lavorando con bambini di 20 e di 28 mesi, le due ricercatrici hanno trovato che il gioco risultava più variato quando i bambini giocavano non da soli ma con la collaborazione della madre. Quelli del gruppo d’età superiore, inoltre, seguivano più spesso degli altri i suggerimenti materni di gioco simbolico.” (pag. 187). 

” … abbiamo trovato, fra bambini di età prescolastica, minore aggressività e più spiccate doti d’immaginazione in quelli che la sera, invece di esser lasciati davanti alla TV, erano intrattenuti con la lettura di favole o comunque avevano un momento dedicato a giochi tranquilli prima di essere messi a letto, in confronto a quelli che non ricevevano dai genitori questo tipo di attenzioni.…

Sembra ragionevole concludere che i bambini hanno bisogno di imparare (attraverso l’imitazione, l’incoraggiamento e la pratica) a seguire il corso dei propri pensieri, a trasformare gli oggetti del loroambiente in un materiale di gioco che possano almeno temporaneamente controllare, e a ricreare in forma accessibile e miniaturizzata alcune delle tante scene complesse, oscure e a volte forse anche spaventose, di cui hanno avuto esperienza. Una benevola figura adulta, a quanto pare, ha un ruolo essenziale nell’aiutare il bambino a sviluppare quest’arte” (pag. 194).

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