“Attitudini” dell’allievo o piuttosto problema strutturale della società capitalista?

Aris Della Fontana per la Gioventù Comunista ticinese

Introduzione

Ci dicono che la nostra sia una società democratica, dove quindi il diritto allo studio è garantito e nella quale chiunque può continuare gli studi senza difficoltà. Basta che si applichi nell’apprendimento. Sappiamo che in una società classista ciò è soltanto una chimera. Molti insegnanti, politici, pedagogisti ed opinionisti pretendono insegnarci che le differenze di classe non esistono più nella società contemporanea occidentale e che, semmai, continuano ad esistere solo minime disuguaglianze sociali dovute anche alle diverse “attitudini” individuali. Una teoria delle attitudini dietro la quale troppi protagonisti del mondo scolastico si nascondono, contraddicendo don Lorenzo Milani che la definiva nientemeno che “razzista”. 
Un’analisi marxista, che la Gioventù Comunista vuole riscoprire e riportare all’ordine del giorno, non può invece fare a meno di riconoscere la società borghese, a tutt’oggi, come il luogo in cui, con le forme, i modi e le peculiarità di tempo e di luogo, esistono non solo delle differenze di classe, ma che continua a svilupparsi una evidente lotta fra tali classi sociali diverse e contrapposte.
In questo documento vogliamo prendere in considerazione un tema generale come la selezione scolastica osservandola principalmente sotto tre punti di vista: quello dell’origine sociale, quello dell’origine etnica e quello del controllo sociale da parte dello Stato nell’utilizzare la scuola per ricreare la stratificazione della società.

Origine etnica

Ciò che si insegna a scuola non è culturalmente neutro, anche se molti insegnanti pretendono lo sia o credono loro stessi di essere un modello di neutralità: ma essere neutrali non è umanamente possibile, essere democratici e rispettosi delle opinioni altrui invece è fattibile. Fra l’essere indipendenti e l’essere neutrali esiste poi una bella differenza che a volte si tende a sottovalutare. Il modello d’insegnamento è in ogni caso influenzato dalla nostra cultura occidentale, oltre che borghese. La storia viene affrontata cronologicamente basandosi sul ruolo dell’Occidente. Le altre civiltà sono spesso studiate in funzione del periodo colonialista. Nei libri di testo non si affrontano direttamente problematiche vissute dalle classi sociali meno abbienti e con la moda degli esperimenti a crocette si indirizza lo studente nelle direzione voluta dal pensiero dominante e dunque dal pensiero unico. Il docente di sentimenti progressisti deve quindi sapersi emancipare da questa situazione, proponendo alternative anche a livello contenutistico. Ciò garantirebbe un vero pluralismo a scuola: il docente di destra, infatti, riproduce quello che il sistema dominante prevede e cioè un modello borghese; al fine di garantire vero pluralismo ci si aspetta che il professore progressista si distanzi e permetta agli studenti di affrontare quanto prevede il programma da un punto di vista differente. 
Quegli allievi che provengono da un contesto diverso, che quindi non solo non padroneggiano perfettamente la lingua, ma soprattutto che hanno interiorizzati norme e valori culturali diversi, sono considerati da ancora troppi insegnanti dei ritardati: in realtà questo non ha niente a che fare con l’intelligenza. Non è un mistero di come i figli dei lavoratori stranieri in certi cantoni del nostro paese venissero relegati alle classi di scuola speciale unicamente perché non padroneggiando bene la lingua non erano in grado di seguire le lezioni. Ecco quindi che la preparazione del docente assume un’importanza notevole perché potrebbe in caso contrario iniziare un processo di esclusione dell’allievo, il quale non si esprimerà, non parteciperà né in classe né fuori: questo avrà in un prossimo futuro delle ripercussioni sul relazionarsi con la società dell’allievo emarginato, a cui possiamo legare il dibattito sulla criminalità giovanile (come conseguenza di fattori sociali) che viene invece strumentalmente utilizzato dalla Destra al fine di limitare i diritti civili e le libertà costituzionali.
Spesso l’unico modo per essere rispettati non è l’integrazione, ma l’adeguarsi alle usanze indigene in un senso di assimilazione, consacrando in più maggiori sforzi rispetto agli altri allievi, cosa che comporta una grande discriminazione. Oltre a ciò occorre rendersi conto che il programma scolastico richiede vari elementi di partenza che non sono in sé discriminatori, ma che assumono questo valore negativo quando non tutti gli allievi ne possono disporre. Per esempio si sottintende (male) che tutti i bambini abbiano a casa un quotidiano, che possano prendere del materiale didattico direttamente da casa e che soprattutto i genitori siano al corrente non solo del funzionamento scolastico ma che essi abbiano un’istruzione adatta per seguire il progredire dei propri figli nell’apprendimento. I bambini di famiglie immigrate che il più delle volte vengono pure da un contesto socio-economico basso sono le persone che hanno maggior bisogno di accoglienza nel sistema scolastico, ma tuttora questi individui rischiano di non sentirsi a casa loro. Un allievo che si sente poco accettato avrà risultati minori rispetto ad uno ben integrato. Le forze che gli immigrati spendono per venire integrati, potrebbero essere usate invece per studiare. La scuola dovrebbe essere il trampolino dell’integrazione, invece, malgrado sforzi nobili che esistono certamente, diventa la fautrice di una prima differenziazione: è importante impedire la gerarchizzazione dell’insegnamento e garantire l’accesso al sapere a tutti i giovani, superando la teoria razzista delle attitudini, come tuonava don Milani dalle pagine della sua “Lettera a una professoressa”, perché tutti i ragazzi “sono adatti alla terza media e tutti sono adatti a tutte le materie”!
Abbiamo con questo capitolo visto come l’origine etnica sia legata a filo doppio con l’origine sociale. Evidentemente, quest’ultima, riguarda anche studenti autoctoni. In questo senso il Sindacato Indipendente degli Studenti e Apprendisti (SISA) si era mosso correttamente lo scorso anno, quando il Dipartimento Educazione Cultura e Sport (DECS) aveva ammesso cifre inquietanti circa la selettività che colpiva i ragazzi di origine straniera al termine della quarta media. Nel passaggio dalle scuole medie alle scuole medie superiori il numero di studenti stranieri cala in maniera drastica: dei circa 400 allievi spagnoli che terminano la quarta media, solo 51 li ritroviamo al liceo; dei circa 50 allievi turchi al termine dell’obbligo scolastico, continuano gli studi solo in 7. E l’elenco potrebbe continuare. Più che l’origine nazionale, sottolineava il SISA (ma anche il DECS), in quell’occasione che era la condizione socioeconomica famigliare a influenzare la scelta di continuare gli studi. Dati peraltro non del tutto nuovi: uno dei primi comunicati del SISA, nel settembre 2003, denunciava il carattere classista della scuola ticinese. Alla base della dichiarazione dei sindacalisti studenteschi c’era un lavoro di Mario Donati del 1999 che dimostrava come “ci vogliono un po’ meno di tre allievi di classe sociale superiore alla scuola media per ottenerne uno all’università cinque anni dopo. Ne devono partire invece circa 8 di classe sociale media per averne uno all’università, mentre ce ne vogliono 17 (quasi una classe!) di origine sociale inferiore per ritrovarne uno all’università”.

Origine sociale

Lo studio di Donati rendeva evidente anche come la scelta dei livelli (attitudinali o di base) nel secondo ciclo delle scuole medie non fosse del tutto basato su una questione di “attitudine” quanto di origine sociale. E’ abbastanza evidente, essendo i livelli A e B un fattore importante che consente o meno ad un ragazzo di accedere agli studi superiori: “Mentre le scuole medie superiori attingono a piene mani nelle fasce sociali elevate e in quelle medie, le formazioni con apprendistato reclutano una grossa fetta dei loro utenti ai piani inferiori della composizione sociale della popolazione”. 
E’ noto a tutti che più si continua con gli studi, più aumentano i costi. E’ noto anche come i tagli dovuti alla politica economica e sociale di stampa neoliberista non abbiano certo migliorato la situazione dell’aiuto statale agli studenti di classe sociale sfavorita. Senza voler tirare in ballo statistiche (abbastanza preoccupanti) su quanto accade a livello universitario, dove con la riforma di Bologna sembra che la condizione sociale degli studenti sia peggiorata, limitiamoci a riflettere sulle scuole dell’obbligo. 
E’ evidente che esiste anche una questione culturale: studenti di classi sociali agiate hanno dietro di sé una famiglia che trasmette loro determinate conoscenze, valori, atteggiamenti in relazione alla cultura. Tutto questo influenza chiaramente anche il profitto scolastico. Eppure non dobbiamo ridurre l’analisi a un discorso culturale, perché esso è legato direttamente con la questione sociale, anche ma non solo finaziaria: un bambino, come spiega Giovanni Galli, che cresce in un ambiente dove la lettura di libri è vista come una normale attività, dove i genitori si interessano dell’attività scolastica, hanno certamente dei vantaggi. Oggi, ricorda Galli, si impara molto al di fuori delle aule scolastiche: TV, DVD, Cinema, Internet, ecc. influenzano la vita dei bambini, così come pratica sport in una società, suonare uno strumento, ecco. sono momenti educativi importanti, che però spesso sono del tutto in mano a privati che su queste offerte formative speculano e fanno profitti. Ecco allora la domanda: chi se li può permettere?

Controllo sociale

Abbiamo quindi appurato che esistono forme di selezione sociale tuttora presenti. Chiediamoci adesso se esiste una volontà politica nel mantenere questa situazione. Nel ’68 si diceva: “Allo Stato non conviene che noi si impari a pensare”. Esiste insomma una volontà di controllo sociale, oltre che di riproduzione delle differenze di classe? Senza poter iniziare una ricerca approfondita, senza dubbio possiamo riconoscere una poca sensibilità verso la cultura generale nelle formazioni professionali soprattutto, anche se pure a livello liceale negli ultimi anni abbiamo assistito ad un insistenza delle materie cosiddette “redditizie”, cioè utili al mercato. Non da ultimo le riforme liceali del 1997/’98 e quella in discussione attualmente giocando sul cosiddetto (ma è un nomignolo significativo) “blocco scientifico” aumentano la selezione in modo artificiale e mettendo sotto pressione le discipline umanistiche. Sempre nelle formazioni soprattutto professionali ci troviamo di fronte ad una maggiore difficoltà ad esprimersi e ad organizzarsi dei giovani: gli apprendisti sono spesso formati unicamente per le strette esigenze di mercato, bloccando ogni sviluppo di pensiero critico e dunque forgiando una futura classe operaia incapace di rivendicare e di organizzarsi per lottare. Gli allievi che frequentano una scuola professionale escono da essa con una relativamente buona formazione inerente la professione, ma spesso mancano di competenze e conoscenze che permettono loro di comprendere il mondo (scientifiche, filosofiche,…). Essi sono quindi disarmati e non possono difendersi individualmente e nemmeno collettivamente (prendere posizione, organizzarsi,…). Questo fatto però lo riscontriamo anche a livello di scuola media e non possiamo escluderlo a priori anche nelle formazioni superiori.
Le differenze fra gli allievi si possono approfondire in tre modi: 1. il paese non concede mezzi sufficienti all’insegnamento di base, concentrandosi a investire in strutture universitarie semiprivate (vedi USI); 2. i bambini sono separati in corsi diseguali che portano anche a risultati disuguali (non corsi differenziati in base ai tempi di ciascuno, come chiedeva don Milani, ma livelli attitudinali prerogativa per accedere o meno al liceo); 3. le scuole sembra vogliano seguire la via della competizione fra loro (come avviene sciaguratamente già in alcuni paesi) e quindi danno vita ad un vero e proprio mercato, dove i sussidi e gli impieghi dipendono dal numero di allievi iscritti e i genitori possono decidere dove mandare a scuola i figli, quindi si ha una divisione classistica delle sedi scolastiche stesse, con scuole di serie A e scuola di serie B. (Questo in Ticino non è ancora il caso, anche se le rivalità di censo e di “qualità” fra Liceo di Lugano 1 e Liceo di Lugano 2, ad esempio, non si potranno nascondere per molto ancora).

Conclusione

Bisogna interrompere questo sistema discriminatorio! Ma il sindacato studentesco da solo non può occuparsene da solo senza una partecipazione attiva e diretta anche dei docenti democratici e progressisti e dei genitori. Riteniamo si debba riprendere in mano la possibilità di riformare del tutto la scuola, rendendola comune dai 6 ai 15 anni, una scuola generale, ma nello stesso tempo politecnica, in cui ogni specializzazione professionale sia esclusa. I giovani saranno più maturi e gestiranno con facilità le basi generali. Questo cambiamento che è per certi versi rivoluzionario non può essere effettuato immediatamente, bisogna dunque proseguire con piccoli passi, ad esempio la riduzione del numero di allievi per classe, l’aumentare il numero d’insegnanti, la statalizzazione di certi servizi para-scolastici oggi lasciati in balia della “libera” concorrenza. Occorre interrompere i meccanismi di segregazione, placare la nascente concorrenza tra scuole. Si deve indirizzare gli allievi ad una scuola determinata in relazione al suo domicilio, un discorso che si faceva con l’istituzione della scuola media negli anni ’70 e poi forse dimenticato. Una scuola insomma più umana, aperta alle attività artistiche, sportive, associative,…attenta non tanti ai geni, quanto a tutti gli studenti soprattutto coloro che hanno delle difficoltà. 
Utopia? No! Un sistema scolastico che andava in questa direzione esisteva nella tanto vituperata Repubblica Democratica Tedesca (DDR), forme simili esistono poi nei paesi scandinavi. Lo scopo di questa rivoluzione è avere dei cittadini responsabili, capaci allo sviluppo di una società democratica, solidale, pluralista ed aperta ad altre culture. È necessario quindi reinvestire sul lavoro di squadra, sulla pedagogia, favorire l’interazione fra l’attività produttiva e teorica, rendere possibile uno sviluppo locale, le azioni di solidarietà, la creazione artistica,… 
Ma sappiamo anche che sarà fattibile pensare ad una democrazia sostanziale nella scuola solo non nascondendo un programma politico volto alla trasformazione sociale.

Si ringrazia lo psicopedagogista Giovanni Galli e la redazione di “Verifiche” per l’opportunità concessa alla Gioventù Comunista di affrontare questo tema e il sindacalista studentesco Massimiliano Ay per i suggerimenti e la rilettura critica del testo finale.

Bibliografia

N. Hirtt (2004): “Emploi dual, école inégale”. (www.ecoledemocratique.org)

M. Ay; M. Bertini (2007): “Die soziale Reproduktion in Bildungswesen”, Forschungsproseminar zur Einführung in die empirische Sozialforschung, Soziologisches Seminar, Università di Lucerna.

S. Bowles; H. Gintis (1979): “L’istruzione nel capitalismo maturo”, Zanichelli, Bologna.

M. Donati (1999): “Volevi veramente diventare quello che sei?”, Ufficio Studi e Ricerche del Canton Ticino, Bellinzona.

G. Galli (2005): “Scarpe rotte eppure bisogna andar. Indizi e considerazioni sulla democraticità della scuola”.

G. Galli (2006): “Non vogliamo mica la luna… magari un cavallo! Formazione: tra scuola pubblica e mercato del tempo libero”. In: “Verifiche”, Nr. 5, Nov. 2006.

G. Galli (2004): “Disadattamento, selezione scolastica, democrazia negli studi”.

M. Ay (2003): “I tagli all’educazione e la mentalità che li sostiene”. (http://www.sisa-info.ch)

J.P. Kerckhofs (2004): “Adapter l’école pour créer des emplois?”. (www.ecoledemocratique.org)