Ovvero: quando le discrepanze esterne di sviluppo nella plusdotazione incanalano una fuga centripeta
Nota introduttiva
Non tutte le fughe portano lontano.
Il concetto di “fuga centripeta” è un’immagine per descrivere il paradosso di un’energia mentale che, non trovando sfogo nella complessità del mondo esterno, finisce per implodere, schiacciando l’identità del ragazzo.
Con la locuzione “fuga centripeta”, desidero dare un nome a un malessere che spesso, nel mondo della scuola, viene scambiato per pigrizia, arroganza o semplice disinteresse.
1) La spinta (interiore) ad allontanarsi dall’istituzione
Nei giovani plusdotati si condensa spesso una spinta, talvolta inconsapevole, ad “allontanarsi” dall’istituzione.
Non si tratta di un abbandono scolastico: è qualcosa di molto più profondo e pressante.
Mi spiego: l’allontanamento è interiore, soggettivo, simbolico.
Il ragazzo resta (è presente fisicamente), ma prende distanza dalle proposte, dai ritmi e dalle modalità che non intercettano (più) il suo funzionamento.
È una separazione interna, spesso silenziosa, che riguarda il senso prima ancora della presenza.
Si crea una distanza che non si gioca nello spazio, ma nel senso.
Per molti giovani plusdotati, quando la scuola non offre programmi adeguati, quella spinta ad allontanarsi dall’istituzione non produce liberazione, ma un rientro forzato su di sé.
Da qui l’ossimoro “fuga centripeta”.
Descrive perfettamente come un’energia nata per crescere verso l’esterno (centrifuga), per andare verso il mondo, se compressa da un ambiente non idoneo, finisca per implodere (centripeta), diventando tossica per l’identità stessa del ragazzo.
L’energia che implode, si trasforma in auto-sorveglianza.
Quando l’energia mentale non trova un campo esterno in cui dispiegarsi, non si spegne. Nei giovani plusdotati, piuttosto resta intensamente attiva. La spinta originaria all’esplorazione, alla connessione e alla trasformazione dell’esperienza, se non intercettata da un ambiente sufficientemente complesso e differenziato, viene compressa e costretta a rientrare. È in questo movimento di rientro che l’energia implosa tende a trasformarsi in auto-sorveglianza.
Là dove l’energia cognitiva sarebbe orientata verso il mondo, essa viene progressivamente dirottata sul soggetto stesso. In assenza di traiettorie esterne praticabili, l’Io diventa il principale, talvolta l’unico campo di lavoro. Il pensiero, privato della possibilità di interrogare il contesto, si rivolge al funzionamento personale: non più “come funziona ciò che mi circonda?”, ma “come sto funzionando io?”. L’esplorazione si converte in monitoraggio, la curiosità in controllo.
Questa auto-sorveglianza non ha una funzione evolutiva, ma difensiva. Nasce come tentativo di adattamento a un ambiente percepito come non negoziabile. Se il contesto non cambia, se non offre linguaggi né alternative, allora il soggetto è spinto a pensare che il problema risieda in sé. L’energia mentale viene così investita non nel fare esperienza, ma nel prevenire l’errore, nell’anticipare il giudizio, nel contenere l’eccedenza. Il pensiero si intensifica, ma perde la sua funzione trasformativa, diventando iper-riflessivo, talvolta ruminativo.
Clinicamente, questo processo si manifesta attraverso forme di iper-controllo, perfezionismo difensivo, paura dell’errore, auto-svalutazione o ritiro silenzioso. L’apparente disinvestimento non è segno di inerzia, ma l’esito di un eccesso di lavoro psichico concentrato sull’identità. Il soggetto appare fermo all’esterno perché è occupato, internamente, a sorvegliarsi.
Il passaggio decisivo avviene quando la discrepanza ambientale non trova rappresentazione condivisa. In mancanza di un riconoscimento esterno, la tensione viene interiorizzata e la discrepanza smette di essere pensata come relazione tra soggetto e contesto, trasformandosi in difetto personale. Ciò che non può essere nominato fuori diventa colpa o insufficienza interna. L’energia che implodendo si concentra sull’Io produce così una sorveglianza continua di sé, che protegge dal collasso ma al prezzo di una progressiva compressione dell’esperienza e di un irrigidimento identitario.
In questo senso, l’auto-sorveglianza non è un tratto caratteriale, né una fragilità individuale, ma l’esito prevedibile di una fuga centripeta: un movimento che nasce dal tentativo di sottrarsi a un contesto non riconoscente e finisce per chiudere il soggetto in un rapporto sempre più stretto e faticoso con se stesso.
La pedagogia per la plusdotazione è ricca di concetti e di proposte. Il problema non è l’assenza di modelli, ma la loro mancata traduzione istituzionale capace di offrire traiettorie esterne reali.Il lettore premuroso potrà arricchire il proprio bagaglio e riempire la propria valigia degli attrezzi ricercando in rete i lemmi: “accelerazione”, “arricchimento”, “approfondimento” (mi permetto di segnalare il fascicolo del sottoscritto“Alto potenziale cognitivo a scuola. Riconoscere e formare l’allievo. Vademecum per i docenti”.
Le modalità di funzionamento APC richiedono processi che pianifichino con sollecitudine le necessarie “esplorazione”, “differenziazione”, “complessità”, “organizzazione”, “selezione” delle informazioni (vedasi il mio “Alto potenziale cognitivo (plusdotazione): multiverso, aggregazione reticolare e coerenza sequenziale“).
Non modulandosi verso quei processi, la scuola impedisce una fuga centrifuga sana, producendo invece una fuga che concentra la tensione psichica sull’identità del ragazzo.
In molti giovani plusdotati, quando la scuola non riconosce né accompagna le loro discrepanze di sviluppo, il tentativo di allontanarsi dal contesto non produce apertura, ma concentrazione. È una fuga che non libera: una fuga centripeta.
L’ossimoro offre una chiave clinico-educativa: il soggetto tenta di sottrarsi a un contesto che non lo riconosce, ma finisce per collassare sul proprio nucleo identitario, spesso in forma di ruminazione, perfezionismo, o vergogna.
Il ragazzo si disinveste, si ritira, si adatta in modo difensivo o si oppone. Ma questo movimento non trova uno spazio esterno in cui tradursi. Non ci sono programmi differenziati, né interlocutori simbolici, né traiettorie alternative credibili. La fuga non diventa esplorazione.
L’energia allora rientra. Si addensa. Come una melassa, diventa appiccicosa, difficile districarsi.
Proviamo a rendere il fenomeno concreto.
La fuga è reale. È presente, osservabile:
- nel disinvestimento scolastico,
- nel ritiro emotivo,
- nella noia cronica,
- nell’oppositività silenziosa o iper-adattamento,
- talvolta passaggio all’atto o all’auto-svalutazione.
Ma è centripeta perché:
- manca di traiettorie alternative, non apre mondi alternativi, o ad aspettative coinvolgenti
(esplorazione, complessità, programmi differenziati), - non consente una vera risoluzione del conflitto, internalizzandolo o esternalizzandolo,
- riporta tutto dentro. La domanda smette di essere “Dove posso andare?” per diventare: “il problema sono io”.
2) Una tensione che non viene giocata.
La tensione che non può essere giocata nel mondo viene interiorizzata e caricata sull’identità. Il conflitto non è più tra soggetto e ambiente, ma nel soggetto. Il pensiero si intensifica, diventa iper-riflessivo, talvolta ruminativo.
La domanda implicita smette di essere “dove posso andare?” e diventa “che cosa c’è che non va in me?”.
In questo senso, la fuga centripeta non è un fallimento individuale, ma l’esito strutturale di un ambiente che non offre direzioni centrifughe. Quando l’istituzione non riconosce la specificità del funzionamento plusdotato, impedisce una sana dispersione verso l’esterno e costringe a una concentrazione interna precoce.
Clinicamente, questo fenomeno si osserva nei seguenti modi:
- ruminazione, cioè intensa attività mentale non produttiva,
- noia cronica accompagnata da intensa attività mentale;
- scissione tra prestazione e coinvolgimento soggettivo;
- perfezionismo difensivo o auto-svalutazione;
- ritiro silenzioso o oppositività priva di reale funzione trasformativa;
- senso di estraneità senza linguaggio condiviso.
La scuola, in questi casi, non è semplicemente “non adatta”: diventa un dispositivo che spinge il soggetto a farsi carico da solo di ciò che dovrebbe essere pensato insieme.
E il giovane plusdotato diventa il contenitore di una discrepanza che non trova alcuna rappresentazione esterna.
La fuga centripeta è dunque una strategia di sopravvivenza psichica. Protegge dal collasso, ma al prezzo di una crescente discrepanza identitaria (a questo proposito leggi il mio articolo “discrepanza identitaria”). Non apre mondi: comprime.
Riconoscerla significa spostare lo sguardo dal presunto deficit del soggetto alla responsabilità del contesto. E, soprattutto, restituire a questi giovani la possibilità di una fuga diversa: non via da sé, ma verso il mondo.
Quadro: “Donna pensante” di Alexej von Jawlensky, 1912