Pensare per immagini

Eleonora Fiorani

Il bambino disegna non ciò che vede, ma ciò che sa, così dice G. Anceschi (1992), sulla traccia di uno scritto del 1958 di Henri Breuil, che esamina il mondo originario dell’immagine e della rappresentazione. Il bambino disegna l’idea, la Vorstellung, che si é fatto delle cose, non la visione che ne ha attraverso gli occhi. E così facevano i nostri antenati. Il simbolismo, o il “realismo intellettuale”, come Breuil dice per la rappresentazione schematica, che evolve verso l’astrazione del simbolismo grafico con cui si evocano le cose ma anche si esprimono relazioni, precederebbe quindi geneticamente il “realismo visuale”, che implica il saper dimenticare ciò che si sa o meglio l’idea che ci si é fatta delle cose.
Il “realismo intellettuale” non solo precede ma si oppone al “realismo visivo” che si apprende più tardi, e implica attenzione analitica e selettiva e il saper mettere fuori gioco o fuori campo, l’interprete o l’elaboratore, la mente, per ascoltare e far agire solo l’operatore, quindi la mano in relazione all’occhio. In questa opposizione viene collocato il processo che differenzia non solo l’infanzia, ma il mondo e la mentalità o pensiero selvaggio da quello adulto e “colto”.
In realtà le cose sono molto più complesse, circolarità e retroazione rendono inseparabili mondo esperienziale e categorie mentali, vediamo ciò che la mente si aspetta di vedere mentre le nostre categorie sono espressione dei processi vitali che le istituiscono. E allora ciò che fa il fanciullo va esaminato di per sé e per ciò che ci dice: più che il pensiero selvaggio coinvolge l’intera visione antropologica. Del resto già Breuil osservava che ciò che spinge il fanciullo a disegnare-scarabocchiare é una sorta di pulsione del corpo, un’affermazione della propria presenza nel lasciare una traccia, che si può constatare o far constatare all’altro. E quindi siamo al di fuori di ogni preoccupazione “realistica”. Siamo in quello della simbolizzazione e dell’espressione di sé, nell’atto della realizzazione individuale, in quello che saussurianamente é l’ambito della “parole”, in cui si colloca anche il l’affermazione di sé e la domanda di riconoscimento rivolta all’altro. L’universo del disegno come quello della parola é quello della soggettività. Disegnare come parlare é produrre non solo segni, ma elementi che indicano all’altro che noi siamo e chi noi siamo. Il soggetto si serve della parola come del disegno per rappresentare se stesso nei modi in cui vogliamo esser visti. E’ la grande impresa del bambino quella di riuscire a mettere la sua parola e il suo segno in un discorso preesistente. Un essere giunge all’esistenza soggettiva solo se gli ascendenti lasciano posto alla sua parola e presenza.
Il fatto che l’essere umano acceda all’esistenza soggettiva solo se conta agli occhi di un altro contrassegna per tutta la vita la sua attività di parola. Ogni parola implica una richiesta di riconoscimento: chiede che si prenda atto della sua esistenza e si colloca rispetto all’altro nell’ambito di un “Chi sei per me, chi sono per te”.
Il “realismo intellettuale” o, come si é soliti dire, il simbolismo e l’astrattismo vengono dopo nel processo comunicativo e nella ricerca di approvazione, ma la dimensione e motivazione ludica restano tuttavia prevalenti.
Anati, interrogando e classificando i segni della preistoria, ha messo in rilievo la presenza di segni aniconici, che non hanno nessuna valenza rappresentativa ne cognitiva, ma esprimono emozioni, stati d’animo, come avviene nell’arte delle avanguardie novecentesche, e rendono visibile l’invisibile.
E non dobbiamo dimenticare la dimensione dell’imposizione del proprio corpo nella traccia e la dimensione ludica che presiede al grafismo e ne fa un’operazione fine a se stessa, per il piacere di giocare e per il godimento estetico della ripetizione e della variazione, prima o diversamente dall’avere intenti comunicativi o di rappresentazione e insieme con essi. Se possiamo ammirare i grandi animali-potenze nel loro incanto grafico, é il loro mistero che ci intriga e sono le tracce della mani che ci commuovono ed esercitano su di noi la maggiore suggestione.

Vediamo allora di esaminare brevemente i caratteri fondamentali di questa modalità di vedere e di rappresentare, che sembra essere quella originaria. Per Leroi-Gourhan nell’arte delle caverne agisce un linguaggio multidimensionale che si dispone nelle tre dimensioni dello spazio o meglio si dispone a raggiera come il corpo di un riccio o di una stella di mare. Siamo in presenza di mitogrammi, in cui non vale la linearità della narrazione, ma la condensazione e l’accostamento di ambiti che nella logica duale e analitica siamo soliti differenziare.
All’origine dell’espressività estetica umana troviamo anzi solo trattini o puntini, segni che si ripetono come se contrassegnassero il ritmo e il pulsare del nostro cuore o del respiro o quello del camminare. I simboli grafici, che più oltre troviamo, sono il semplice scarabocchio che traccia tratti morfologici che rimandano a un qualche oggetto, mentre quelli che accompagnano i grandi animali, nell’epoca più vicina a noi, e li contrassegnano, contraddicono l’interpretazione di realismo grafico e ci avviano a una lettura mitologica. Si ipotizza che i segni valgano nella loro autonomia di linguaggio, non abbiano una funzione descrittiva, ma siano piuttosto il supporto di una narrazione orale, che si inscrive all’interno di un mitogramma. E il mitogramma é il modo arcaico del pensiero e della rappresentazione, é il modo d’essere del pensiero mitico, selvaggio, descritto da Levi-Strauss. Esso presenta i personaggi del mito tutt’insieme, non strutturati linearmente e costruisce uno spazio irraggiante, che invita l’occhio e la mente a un gioco di opposizioni e di correlazioni tra l’immagine complessa e lo sfondo in cui si delinea e tra le figure stesse.
L’arte delle caverne implica due spazi di rappresentazione: quello degli animali e quello dell’uomo con linee, triangoli, punti (secondo Barthes e Marty). La geometrizzazione della figura umana segnala l’emergere del simbolico.
Il segno grafico conserva, anche più oltre, l’originario carattere magico della notazione mitografica o ne reca a lungo la traccia. La mitografia é la prima “scrittura”, é la scrittura arcaica e poetica che risale alle origini delle credenze e a quelle del linguaggio. Attraverso disegni (che sono simboli), collega i membri di una società tra di loro, con la ricerca di una comune storia sacra. I disegni sono simboli etnici, che hanno quindi una funzione comunicativa.
Il mitogramma é ancora largamente presente nelle nostre forme di espressione e di comunicazione, in particolare nella pubblicità. “Rendere l’idea della pace ponendo una donna sotto un tetto apre una prospettiva mitografica perché ciò non corrisponde né alla trascrizione di un suono né alla rappresentazione pittografica di un atto o di una qualità, ma all’assemblaggio di due immagini che entrano in gioco con tutta la profondità del loro contesto etnico” (Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola: 280).
Si tratta di un “bricolage” che in senso cognitivo mescola insieme, utilizza e arrangia immagini e oggetti tratti fuori dal loro contesto e uso specifico, realizzando incontri-scontri imprevisti e sconcertanti per una logica lineare e sequenziale. L’accostamento che ci sorprende e rompe la tradizione, e la suggestione da esso provocata, o il vuoto e la mancanza stessa di un’esplicita narrazione, mettono in moto l’immaginazione e invitano alla fabulazione, aprendo così a percorsi possibili e illimitati. I manifesti pubblicitari che utilizzano il mitogramma traggono infatti “la loro forza e la loro durevolezza dalla tendenza del pubblico a metterli in racconto, ad immaginare mille azioni e intrighi laddove non c’é che qualche relazione stabilita e spazializzata” (Floch, 1990: 223).
Il mitogramma é una interrogazione del mondo, una sua messa in scena, che proprio perché ci coglie di sorpresa sembra a sua volta guardarci e provocarci con il proprio carattere enigmatico. Proprio perché il suo senso ci sfugge e non é immediatamente dato, l’intelligibilità si situa alla giusta distanza tra soggetto e oggetto.
Leroi-Gourhan qualificando come mitografia la pittura preistorica e quella degli Aborigeni australiani, e, nella società moderna, il manifesto pubblicitario, allarga il termine a comprendere ogni produzione segnica che attraverso l’immagine e il grafismo esprime i miti. Nel pittogramma, che sviluppa un raffinatissimo sistema iconico, e poi nelle scritture ideografiche, che si sviluppano dopo la pittografia viene meno questa complessità originaria, questa multidimensionalità. Il grafismo della scrittura é in rapporto con la motricità verbale ritmata: é un gioco pulsionale del corpo e della voce che allontana dal visivo e porta all’esteriorizzazione di simboli non concreti. Il pittogramma é caratterizzato dalla linearità e rivela in ciò il suo legame con la scrittura. Allinea infatti i simboli in una determinata direzione. La costruzione di una sequenza di immagini per rappresentare un’azione evoca lo scorrere del tempo, in cui c’é un prima, un durante e un dopo. E certo sviluppa anche un sistema di immagini connotato con denso significato metaforico.
Mitogramma e pittogramma costituiscono non solo due modi di costruire l’immagine, ma di due logiche, di due modi di pensare. Il primo é sintetico e globale, l’altro é analitico e concettuale. E tanto più lo é la logografia quali sono gli alfabeti e i sistemi grafici di notazione del linguaggio, che sono sistemi discontinui ed evolutivi, sempre più astratti.

L’incantamento dell’immagine


Vediamo ora di esaminare la questione del “realismo” o del carattere rappresentazionale delle immagini. L’uomo é un essere della vista e dello sguardo. L’attività stessa del sogno avviene nella forma della messa in scena, del figurale. La sfera percettiva della rappresentazione ha carattere figurale, é una messa in immagine, spazialmente, del mondo. E costituisce 1′”essenza” rappresentativa del nostro pensiero e del nostro linguaggio. Per questo é importante fermarci sullo statuto della rappresentazione nel suo ambiguo riferirsi al processo sensoriale e mentale costitutivo e all’oggetto rappresentato. Fermiamoci innanzitutto sull’incantamento dell’immagine, da cui viene il nostro assenso.

Lo specchio e l’immagine

U. Eco, interrogandosi se l’immagine speculare sia o no un segno, se gli specchi siano o no un fenomeno semiotico ci rimanda all’analisi di Jacques Lacan. Lacan ritiene che si dia uno “stadio dello specchio” con il quale si struttura il nostro corpo fantasmatico come unità non frammentata.
Lo “stadio dello specchio” é posto da Lacan come un processo di identificazione, che é presente nello stesso termine imago . E’ un’identificazione fondamentale ed é la conquista dell’immagine, e cioè dell’immagine del corpo, che struttura l’io prima che il soggetto sia entrato nella dialettica dell’identificazione con l’altro attraverso la mediazione del linguaggio.
La costituzione dell’io non si realizza immediatamente, ma richiede la mediazione dell’immagine del corpo. E si realizza attraverso quest’esperienza iniziale dello specchio, in cui sono determinanti il simbolico e l’immaginario. Sembra infatti che il bambino non abbia inizialmente esperienza del suo corpo come di una totalità unitaria. Lo percepisce come dispersione delle sue membra, come frammentato. L’unità del corpo non é quindi primaria, ma si presenta come frutto di un lungo processo. Lo stadio dello specchio viene collocato da Lacan fra i 6 e gli 8 mesi. In quel periodo il bambino si confronta con la propria immagine allo specchio. Dapprima confonde l’immagine con la realtà, poi si rende conto che si tratta di un’immagine; solo nella terza fase comprende, manifestandolo con gridi di gioia, che quell’immagine é la sua. In questa “assunzione giubilatoria” dell’immagine, il bambino ricostruisce i frammenti non unificati del proprio corpo, ma é un corpo ricostruito come immagine esterna, in posizione simmetrica inversa, come appunto mostra l’immagine.
Lacan sembra quindi suggerirci che la percezione del proprio corpo come di una unità non frammentata e l’immagine speculare vadano di pari passo. E quindi che “percezione, pensiero, coscienza della propria soggettività, esperienza speculare, semiosi, appaiono come momenti di un nodo abbastanza inestricabile, come punti di una circonferenza a cui sembra arduo assegnare un punto di inizio” (Eco, 1985: 10).
Questa padronanza immaginaria del proprio corpo é però immatura rispetto alla padronanza reale: lo “sviluppo non ha luogo se non nella misura in cui il soggetto si integra al sistema simbolico, vi si esercita, vi si afferma tramite l’esercizio di una parola vera” (Lacan: 107). Solo nella misura in cui si articola nella catena significante l’immaginario diviene comunicabile. Va ricordato che Lacan, escludendo la certezza della realtà, chiama ‘simbolico’ ciò che é semiosico. Nell”‘assunzione giubilatoria” dell’immagine speculare é presente una componente simbolica in cui l’io si precipita in forma primordiale e il linguaggio é quello che gli deve restituire la propria funzione di soggetto nell’universale. La restituzione nell’universale é propria di ogni processo semiosico. In questo processo l’io speculare diviene io sociale.
Dunque, possiamo da parte nostra osservare che lo specchio é un fenomeno-soglia che segna i confini tra l’immaginario e il simbolico. Lacan dice che ne dà “la regola di ripartizione”. La fase dello specchio ci fornisce dunque il criterio discriminante tra l’immaginario e il simbolico. Mostra che, dietro la scena immaginaria dello specchio e il riconoscimento che vi si realizza in forma anticipata del corpo come Gestalt, si delinea la catena simbolica. Dell’immaginario non si può dire nulla se non lo si pone in riferimento alla catena simbolica.
La caratteristica dell’immagine speculare é il suo legame con il referente. Essa é infatti determinata, nella sua origine e nella sua sussistenza fisica, da un oggetto, un referente appunto. Lo specchio, dice Eco, “nomina un solo oggetto concreto, ne nomina uno per volta, e nomina sempre e solo l’oggetto che gli sta di fronte” (Eco, 1985: 20). Questo aspetto fa la sua differenza con un segno, che é sempre una categoria universale che, se anche designa, non é legato al suo referente. Il segno é un universale anche se può designare il singolo oggetto. E anche se i nomi propri possono essere pensati come designatori rigidi (Kripke).
L’immagine speculare é invece un’icona assoluta nel suo legame alle proprietà di un oggetto. Per Eco il nostro sogno semiotico di nomi propri legato immediatamente a un referente viene dal fascino che su di noi esercita l’immagine speculare. Il potere incantatorio dello specchio é alla base della convinzione profonda che l’immagine rappresenti la realtà, ne costituisca una sorte di doppio.
Partiamo infatti sempre, secondo Eco, dall’idea che gli specchi dicano la verità. L’esperienza che lo specchio ci offre più che un’icona é un doppio, un doppio non dell’oggetto ma del “campo stimolante cui si potrebbe accedere se si guardasse l’oggetto in luogo della sua immagine riflessa” (: 18). E’ questa sua natura di doppio che fa la straordinarietà e la singolarità di questa esperienza. E’ la sua virtualità di duplicazione degli stimoli, che opera una sorta di furto di immagine, capace di duplicare il mio corpo-oggetto, e il mio corpo-soggetto che sdoppiandosi si pone di fronte a se stesso. Costituisce la tentazione che mi spinge a ritenermi un altro.
Dunque, subiamo il fascino della magia degli specchi, ne siamo “prigionieri” in una sorta di incantesimo che trae origine dall’originaria costituzione dell’immagine del nostro corpo ad opera del nostro io. Dietro ad ogni immagine c’è questa esperienza fondamentale. Questa esperienza nutre il sogno di icona assoluta per il segno stesso e per le immagini con le quali tentiamo di fare senza specchio ciò che lo specchio fa. Non ci sono segni analoghi all’immagine speculare. Nessun segno può garantire l’esistenza del suo referente, né la sua corrispondenza con un oggetto specifico e non un altro.

Pensare e comunicare per immagini

L’uomo, abbiamo detto, é un essere dello sguardo. La visione ha un’importanza fondamentale e primaria e presiede al pensiero visivo o per immagini che sta a monte e si differenzia dal pensiero concettuale. In esso si collocano gli schemi figurali, una sorta di inconscio collettivo, presente e operante in tutte le culture. Ad essi l’uomo ha attinto da sempre gli elementi primi della sua vita cosciente. Le immagini costituiscono sistemi raffinati e sofisticati quanto quelli dei sistemi linguistici e concettuali e altrettanto complessi.
Le analisi recenti dei diversi tipi di rappresentazione e di immagine, che sono state condotte dai diversi ambiti disciplinari, hanno messo in luce l’aspetto selettivo della rappresentazione e i suoi connotati conoscitivi concettuali, emotivi per i quali l’immagine non é il doppio o il calco dei reale, ma un processo cognitivo, e cioè una costruzione, che crea una propria realtà o ci informa delle relazioni che intratteniamo col reale, ed é pertanto un produttore di significazione. Si tratta, dice G. Anceschi (1992: 11), “di un caso di autocomunicazione” o anche “di una sorta di fertile simulazione”. “L’io informatore si maschera da oggetto informatore. O piuttosto estroflette una parte di sé e instaura con lei un dialogo” (: 11).

La rappresentazione

L’immagine infatti non é realtà, non perché sia meno reale della realtà, possiede anzi la sua specifica realtà fatta per esempio di carta, di colori, o di inchiostro, o di pietra, di segnali luminosi o elettronici, di bit. Non é la realtà perché é un segno della realtà. E un segno é una realtà che ci rimanda a un’altra realtà, anche se questa realtà non esiste ed é creata dall’immagine stessa, come avviene nel mondo del fantastico e dell’immaginario ad opera della moderna tecnologia, in cui l’immagine é referente a se stessa.
Per quanto possa assomigliare, un segno non é l’oggetto di cui é segno, é comunque un’altra cosa. Avrà rispetto ad esso molte cose in meno e altre in più. Per esempio può non avere la tridimensionalità o il colore, e avere invece in più le linee nere di contorno, il taglio dell’immagine.
In altre parole l’immagine riproduce alcuni aspetti o caratteristiche dell’oggetto, attua cioè, rispetto al modo in cui lo percepiamo, un processo di selezione di quegli aspetti che rendono il senso di un oggetto. Privilegia certe caratteristiche che sono importanti per ciò che vuole dire e le mette in evidenza. Il suo scopo non é quello di creare immagini somiglianti, ma immagini efficaci rispetto alle sue esigenze di comunicazione. Riproduce per esempio le ombre e i contorni che sono sufficienti per darci un’idea della figura, trascurando i particolari inerenti alla figura.
Essa serve dunque a rappresentare, cioè a “mettere davanti”, rivolgendosi quindi alla nostra attenzione, o a farci vedere, o a mettere in evidenza. E quindi é un far scoprire, un inventare e ovviamente anche un deformare e mentire. Costruisce modelli, schemi di mondi possibili.

L’oggetto della rappresentazione. 

L’oggetto della rappresentazione é una costruzione e non un dato immediato, é un concetto visivo che prende corpo in un significante. Ogni rappresentazione é uno schema, una riduzione. E la semiotica ha studiato fin dagli anni Sessanta i diversi tipi di iconicità, proponendo diversi tipi di classificazione che interessano il piano dell’iconicità e quello delle funzioni. Per esempio identificando l’iconicità con la dimensione della raffigurazione e questa nel figurativo, nei termini in cui astratto e figurativo si oppongono, mostrando il progressivo schematizzarsi dell’immagine fino a giungere all’essenzialità del pittogramma. Facendo anche ricorso a una prospettiva percettologica o a una geometria percettiva, che ridà importanza ai modi della nostra percezione, come hanno fatto Arnheim e Kanisza e più recentemente Massironi. I diversi tipi di disegno vengono cosi connessi alla loro funzione comunicativa, che può essere illustrativa, operativa, tassonomica. Il disegnatore infatti seleziona i tratti in modo significativo come fa la percezione sulla scena del mondo, o preseleziona, quindi sottolinea, carica o nasconde e non mostra, guidando l’attenzione del destinatario e manipolando – come fanno le figure retoriche – il corpo dell’oggetto.
Per concludere vorrei svolgere un’ultima osservazione anche se ovvia perché risulta a ben pensarci paradossale. Noi siamo degli analfabeti dell’immagine. Anche se l’immagine deborda nella nostra vita di tutti i giorni e in tutti i suoi aspetti e il nostro mondo é sempre e sempre più popolato di immagini, sempre più iconico, pittografico e mitografico, permane nella nostra cultura una sorta di pregiudizio e di abitudine logocentrica, che continua a privilegiare il linguaggio verbale e la scrittura, rendendoci ciechi o poco consapevoli di fronte all’immagine. Di fronte all’immagine o rappresentazione vale un realismo ingenuo, che collega direttamente l’immagine a eventi, processi, oggetti.
La critica attuale delle nuove epistemologie costruttiviste, di cui Piaget é stato uno straordinario anticipatore, verso la concezione rappresentazionale della conoscenza che é stata dominante nella nostra cultura, ci fornisce strumenti utili per comprendere, a partire dal disegno infantile, la rappresentazione e l’immagine, nel loro valore cognitivo ed espressivo, che interessa innanzitutto la crescita, la maturità e la creatività del bambino e più in generale dell’essere umano. Le rappresentazioni sono “simulazioni”, “messa in relazione”; non si dice niente del mondo, ma si dice il nostro rapporto con mondo e le forme delle nostre categorizzazioni, o azioni o emozioni. Allo sguardo del sorvolo delle epistemologie “cartesiane” che contrappongono soggetto e oggetto, e pietrificano il mondo nel realismo oggettivistico e mimetico, e fanno della conoscenza un fatto solo mentale, il costruttivismo ci rimanda alla prassi corporea e al nostro mondo esperienziale in cui ritroviamo anche il carattere “erotico” o emozionale del nostro conoscere, riconoscendoci menti incorporate. In esse comunicazione e gioco fanno tutt’uno.

Riferimenti bibliografici

Anceschi, G.1992: L’oggetto della raffigurazione , Etas libri, Milano.

Arnheim, R. 1974: Il pensiero visivo , Torino, Einaudi.

Barthes, R. e Marty, E. 1980: Orale/scritto , in Enciclopedia Einaudi , v. 10, Einaudi, Torino.

Bateson, G. (1972): Verso un ‘ecologia della mente , Adelphi, Milano l976).

Breuil, H. (1958): Appunti sulle origini dell’arte , in Anceschi, L’oggetto della raffigurazione , cit.

Canevacci, M. 1995: Antropologia della comunicazione visuale , Costa & Nolan, Genova.

Cardona, G. R. 1987: Antropologia della scrittura , Loescher, Torino.

Cassirer, E. (1923): Filosofia delle forme simboliche , La Nuova Italia, Firenze 1961.

Durand, G. 1968: L’immagination symbolique , PUF, Paris.

Durand, G. 1972: Le strutture antropologiche dell’immaginario , Dedalo, Bari.

Eco, U. 1985: Sugli Specchi , Bompiani, Milano.

Eigen, M., Winkler, R. (1975): Il gioco , Adelphi, Milano 1986.

Fink, E. (1960): Il gioco come simbolo del mondo , Hopefulmonster, Firenze 1991.

Fiorani, E. 1993: Domestico e selvaggio , Muzzio, Padova.

Floch, J.-M. 1990: Semiotica plastica e comunicazione pubblicitaria , in A. Semprini, Lo sguardo semiotico , Franco Angeli, Milano.

Floch, J.-M. 1997: Semiotica, Marketing e comunicazione , Franco Angeli, Milano.

Freud, S.: Il poeta e la fantasia , in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio , Boringhieri, Torino 1969.

Freud, S.: Il perturbante , in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio , cit.

Glasersfeld (von), E. e Varela, F. 1987: Problemi della conoscenza e organismi cognitivi , in “Methodologia”, 1.

Gombrich, E, (1959): Arte e illusione , Einaudi, Torino 1965.

Huizinga, J. (1949): L’uomo ludens , Torino, Einaudi 1964.

Kanizsa, G 1980: La grammatica del vedere , Il Mulino, Bologna.

Lacan, J. (1966): La cosa freudiana , Einaudi, Torino 1972.

Lacan, J. (1978) Seminario , Einaudi, Torino 1991.

Levi-Strauss, C. (l958): Antropologia strutturale , Il Saggiatore, Milano l 966.

Levi-Strauss, C. 1962: Il pensiero selvaggio , Il Saggiatore, Milano.

Leroi-Gourhan, A. (1964): Il gesto e la parola , Einaudi, Torino 1977 .

Watzlawick, P. (1981): La realtà inventata , Feltrinelli, Milano 1988.

Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967): Pragmatica della comunicazione umana , Astrolabio, Roma 1971.

Whorf, B. L. (1956): Linguaggio, pensiero e realtà , Boringhieri, Torino 1970.