Alain Accardo
L’etimologia stessa della parola «pedagogia» implica un concetto restrittivo del processo di costruzione dell’individuo. In questa accezione, la pedagogia sarebbe limitata: sia nella sua durata, sia nel suo contenuto. Nella sua durata, perché la sua azione andrebbe dalla nascita alla fine (più o meno tardiva) dell’infanzia; nel suo contenuto, perché essa si ridurrebbe all’insieme delle azioni intenzionalmente esercitate da disparate istanze educative, tese ad assicurare la condotta del bambino (paidos agogè) allo stato di adulto autonomo, adulto capace di sapersi orientare da solo.
Da un punto di vista sociologico, una tale concezione rinvia a un aspetto parziale e particolare dell’immenso e interminabile lavoro di socializzazione, di cui ogni individuo ne è oggetto dalla sua nascita (e anche un po’ prima) fino alla sua morte (a anche un po’ dopo). La socializzazione di un essere umano è un processo ininterrotto di modellaggio corporeo e mentale, di strutturazione fisica, psicologica, morale, ecc … Questo processo per una parte è intenzionale, esplicito razionalizzato e istituzionalizzato. Ma per una parte più grande ancora è involontario, implicito, empirico e diffuso. In verità, anche se l’infanzia e la gioventù sono dei periodi più particolarmente favorevoli a degli apprendimenti e a delle inculcazioni che lasciano tracce profonde, durante tutta la loro vita gli individui non cessano mai d’imparare, di capire e di adattarsi.
A 50 o 60 anni si possono fare delle esperienze inedite e marcanti, come quella della guerra, della disoccupazione, della prigione, dell’esclusione, ecc … Oggi si ha veramente troppo la tendenza ad associare la pedagogia agli insegnamenti istituzionalizzati. Ciò a causa dell’importanza assunta dalla Scuola. Ma tutto ciò che una società insegna a suoi figli e ai suoi adulti non è oggetto di un insegnamento espressamente e razionalmente organizzato. L’essenziale di ciò che le persone imparano deriva dalla loro vita pratica, dal fatto che «sono nel bagno» (in questo senso il «bagno linguistico» è un buon esempio d’apprendimento culturale complesso [la lingua]. Apprendimento che gli individui possono effettuare semplicemente per immersione nella pratica senza nessun insegnamento metodico).
Ogni esperienza vissuta, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, per sua natura, influenza, modifica o consolida un comportamento. In breve, lascia una impronta nell’individuo, modellandone la sua soggettività in una o l’altra maniera.
Ogni società lavora in permanenza a strutturare ed a intrattenere presso i suoi membri un sistema di disposizioni soggettive interne ad agire, pensare, percepire e sentire (un habitus). Disposizioni che gli permetteranno di riconoscere lo spazio sociale nel quale si trovano, di sapersi e potersi orientare e di far funzionare le strutture oggettive esterne.
Nelle nostre società di classe, complesse e differenziate, questo processo di strutturazione continua dell’habitus è generalmente multiplo, plurale, vedi contraddittorio. E’ contraddittorio a causa della molteplicità dei campi e dell’eterogeneità degli ambienti e dei modelli culturali; per esempio la formazione scolastica può contraddire l’educazione familiare, le esigenze delle attività professionali possono essere in contraddizione con le convinzioni religiose, ecc …
Per l’individuo, il padroneggiare, come il ridurre le contraddizioni e le incoerenze dei propri habitus, é sovente fonte di difficoltà sia teoriche che pratiche.
Tuttavia, qualunque sia la diversità dei modelli in concorrenza, questi modelli non pesano nella stessa maniera nella formazione dell’individuo. A seconda dei periodi storici alcuni modelli sono dominanti: sono quelli che meglio permettono al sistema sociale stabilito di perpetuarsi, quelli che meglio assicurano la riproduzione allargata dei rapporti sociali esistenti.
Questi modelli sono dominanti perché sono quelli dei gruppi sociali dominanti, sono quelli che dispongono dei mezzi di diffusione materiali e simbolici più potenti. Sono pure soprattutto quelli che possiedono (per essi) la forza del maggiore consenso e che raccolgono le più larghe adesioni.
Così, nel sistema capitalistico, l’ideologia dominate comincia ad interiorizzarsi e ad incorporarsi nell’individuo già a partire dalla sua più tenera età. Questo sotto forma di un insieme di disposizioni socialmente valorizzate e coltivate, che sono caratteristiche di un determinato tipo umano e un determinato modo di vita: quello dell’ homo oeconomicus capitalisticus.
L’uomo economico capitalista è dunque quell’essere umano che spontaneamente trova «normale», «naturale», «evidente» e «morale» il vivere secondo la logica del sistema capitalista; che trova altrettanto spontaneamente «normale», «naturale», «evidente» e «morale» il consacrare la propria vita a una competizione forsennata e generalizzata in ogni ambito; come è «normale», «naturale», «evidente» e «morale» la ricerca del forte guadagno con ogni mezzo, compreso lo sfruttamento (o permettendo lo sfruttamento) dei propri simili – tutto ciò con il fine di consumare e di gioire ancor di più-, e che infine vive il doloroso e deprimente sentimento di sprecare la propria vita se non perviene ad essere un «winner», ecc …
Questo condizionamento strutturale sarà più o meno profondo e completato a seconda dell’origine e della traiettoria personale di ogni individuo; ma, poco o molto, compete a tutti. Ne possiamo poi osservare le sue manifestazioni più o meno caratteristiche, compreso presso coloro che per circostanze di differente natura sono stati condotti ad adottare un rapporto parzialmente critico con alcuni elementi del sistema, del quale hanno preso coscienza. E’ il caso della maggior parte delle persone di «sinistra», che restano profondamente impregnate e condizionate dal sistema, anche quando arrivano a denunciarne «difetti», o alcune «insufficienze» sul piano economico e sociale. L’attitudine politica riformista è una forma di opposizione nel sistema, che non ha molto a che vedere con la critica rivoluzionaria del sistema. E anche presso molti partigiani della critica rivoluzionaria, si può constatare che restano rinchiusi nell’ideologia dominante, malgrado che essi credano di essersene liberati; per esempio aderendo, non sarebbe che sul piano del vissuto quotidiano, al libertarismo ultra-individualista, narcisista ed edonista, prodotto del ricupero capitalista della «critica artista», degli anni 70, come l’hanno mostrato bene Boltanski e Chiappello in Le nouvel esprit du capitalisme 1. Il sistema capitalista attuale, tramite una liberalizzazione seducente e gradevole dei costumi sul piano nazionale ed internazionale, compensa e maschera il rafforzamento dello sfruttamento e della servitù che mantiene sulla maggior parte del genere umano.
Quando parlo di «libertarismo ultra individualista», non faccio allusione a una corrente organizzata, con delle strutture e una dottrina specifica; voglio piuttosto parlare di un climaideologico, che si è progressivamente installato nelle nostre società «sviluppate» e «democratiche», nel corso degli ultimi decenni, e nel quale noi nuotiamo oggi. Questo clima (potremmo utilizzare anche il termine di atmosfera) è caratterizzato da una tendenza generalizzata a permettersi tutto, a rifiutare ogni costrizione, ogni limite, ogni regola, a obbedir al solo proprio piacere, a ricercare instancabilmente in ogni ambito un godimento costantemente rinnovato 2.
Nei paesi occidentali sviluppati, l’esistenza della democrazia politica e rappresentativa, un livello di formazione e d’informazione elevati, un modo di vita reso più confortevole dalle ricadute della crescita economica, tendo ad impedire agli agenti sociali di prendere coscienza della profondità del loro condizionamento da parte del sistema. Hanno l’illusione di tutto scegliere liberamente: la loro apparenza fisica, i loro consumi, le loro opinioni, i loro rappresentanti, i loro studi, i loro partner nella coppia, le loro prese di posizione, i loro gusti ed i loro disgusti, in breve tutto ciò che gli permette di essere ciò che sono. Basta però esaminare da più vicino, per il tramite dell’analisi sociologica, come in ogni ambito si suddividono statisticamente le pratiche di consumo (di ogni natura, e comprese anche le più intime), per far scoppiare in mille pezzi questa illusione della libera scelta. In effetti milioni di piccole-piccoli borghesi che nel medesimo istante fanno (o sognano di fare) la stessa cosa (avere delle esperienze amorose liberate, decorare il loro appartamento secondo i modelli proposti dalle riviste, restaurare una vecchia bicocca in rovina per farne una residenza secondaria, partire per un viaggio organizzato alle Seychelles o in Marocco, inviare i propri figli a fare dell’equitazione o degli studi in comunicazione, votare per dei politici di centro-sinistra o centro-destra, ecc …), con il sentimento di fare qualche cosa di distintivo e distinto, non arrivano a concepire chiaramente che sono asserviti a un sistema.
E ciò per una ragione fondamentale: il sistema in questione non ha bisogno di costringerli ad obbedire. Ci si sente costretti solo quando si è forzati, vale a dire sottomessi a una forza coercitiva esterna a sé stessi. Ma, giustamente, la socializzazione consiste nel far passare la logica del sistema dall’esterno all’interno di ogni individuo, sotto forma di disposizioni, di inclinazioni, di tendenze a operare determinate «scelte», a esserne soddisfatti, a «fare di necessità virtù» e ad «amare il proprio destino».
La pedagogia del sistema ha come effetto di condurre l’individuo a «liberamente» e spontaneamente fare ciò che da lui ci si attende. Il «soggetto» viene assoggettato, nella misura in cui le strutture della sua soggettività sono conniventi e in corrispondenza con le strutture obbiettive del sistema. Si può dire – e non è una metafora – che il sistema fa corpo con ciascuno dei suoi membri.
Più le strutture della comprensione e della sensibilità che caratterizzano l’homo oeconomicus sono incorporate in ogni individuo, più diventa per lui stesso più difficile di ribellarsi contro la logica capitalista che lo governa dall’ interno. Più si cerca di riuscire la propria esitenza nel sistema, a crearsi il proprio «orticello», conformemente ai modelli dominanti, più gli si appartiene, e meno è possibile di combatterlo seriamente. Molte persone di «sinistra» credono di combattere il sistema capitalista perché non votano per politici di destra. Questa credenza è illusoria perché, non solamente i politici di sinistra fanno purtroppo la stessa politica di quelli di destra, ma ancora e sopprattutto, tra due elezioni, tra due mobilitazioni, il piccolo borghese di sinistra e i piccolo borghesi di destra tendono a vivere nella stessa identica maniera, secondo gli stessi modelli, le medesime norme, i medesimi principi, sotto il pretesto che bisogna vivere con i propri tempi per essere moderni (o post-moderni). Non vedono che i pretesi universali criteri di modernità – che credono di adottare per loro libera scelta – gli sono in verità imposti; che in ogni ambito senza eccezioni, nella loro maniera di mangiare, di abitare, di spostarsi, di curarsi, di lavorare, di coltivarsi, di divertirsi d’informarsi, di formarsi una opinione, di intrattenere le loro relazioni, di amarsi, di crescere i loro figli, ecc … sono delle marionette di cui il sistema economico-ideologico liberale, la sua logica mercantile, la sua filosofia della «liberazione» individuale e la sua morale del godimento illimitato tengono solidamente le fila.
Per l’individuo in queste condizioni, la difficoltà non è diventare un partigiano del capitalismo, ma di cessare di esserlo.
Per un lucido osservatore delle democrazie occidentali contemporanee, la situazione può apparire disperata, e ciò talmente le loro popolazioni sono maggiormente impastoiate in un consenso molle, confortevole e soddisfatto. La quasi scomparsa di un movimento politico e sindacale di classe non crea un contesto favorevole alla critica rivoluzionaria del sistema. Ma coloro che ancora vogliono battersi sanno da tempo che bisogna rispondere al pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà. Finché c’è lotta c’è speranza, anche se non si sa esattamente come si concretizzerà questa speranza. La vera democrazia è ancora da costruire e la sua costruzione reclama una visione chiara e senza compiacimenti della natura del sistema capitalista che ci ha partoriti; reclama pure la necessità di rompere in profondità i legami carnali, le aderenze viscerali che ci attaccano a lui. Una prassi rivoluzionaria coerente esclude gli stili di vita piccolo borghesi così diffusi nelle classi medie, sia la sottomissione complice e interessata al dominio dei potenti, quanto la falsa ribellione del libertarismo individualista che non persegue altro che il soddisfacimento delle proprie pulsioni egoiste 3.
Uno dei principali compiti della sinistra radicale deve essere oggi quella di sviluppare una nuova pedagogia della lotta delle classi, come pure di diffondere l’idea fondamentale che la lotta contro le strutture del capitalismo mondiale non deve essere condotta esclusivamente contro le sue strutture esterne, oggettive. La lotta deve essere fatta anche inesorabilmente contro le sue strutture interne, soggettive, che dei sottomessi di ogni categoria – e specie quelli delle cosiddetto ceto medio – fanno, a loro stessa insaputa, delle vittime solidali e complici del sistema che le ha assoggettate. Non è sufficiente denunciare le tare, le incoerenze e le iniquità del sistema capitalista. Da Marx, si conosce l’essenziale a questo soggetto. Bisogna ben porsi pure la questione di sapere come e in quale misura siamo diventati noi stessi delle rotelle del meccanismo, come e in quale misura «lo spirito del capitalismo» è divenuto carne e sangue per ognuno di noi, come e in quale misura noi possiamo staccarcene e mettere fine a questa compromissione, non solo con le parole, ma nella nostra civiltà quotidiana, pubblica e privata. E non è cosa facile.
Note
1) Luc Boltanski, una delle figure più eminenti della sociologia in Francia (la sua reputazione supera d’altronde i confini nazionali), ha pubblicato nel 1999, alle edizioni Gallimard, in collaborazione con Eve Chiappello, Le nouvel esprit du capitalisme (per allusione all’opera classica di Max Weber): un magistrale studio della maniera in cui il sistema capitalista ha ricuperato la contestazione degli anni 70 e utilizzato la critica «artiste» per correggere alcuni suoi difetti e rinforzare così l’adesione delle popolazioni. torna al testo
2) Questo clima di permissività e lo stile di vita corrispondente sono apparsi in reazione contro i modelli e le norme imposte alla società borghese fino alla fine degli anni 60. In effetti si trattava di contestare il dominio borghese tradizionale, la borghesia dell’industria e delle banche, quella borghesia che rassomigliava ancora molto agli ambienti del XX secolo e a quella del XIX secolo. Lo sviluppo scientifico e tecnico, in particolare nel settore terziario, e la crescita economica che hanno seguito la seconda guerra mondiale avevano sviluppato una nuova piccola borghesia, più ricca in capitale culturale che in capitale economico. Queste categorie sociali, giovani, istruite, con una fortissima presenza femminile, volevano scrollare il giogo delle tradizioni, liberarsi dal tran tran intellettuale e morale delle generazioni precedenti, per meglio godere dell’esistenza. La contestazione che questa piccola borghesia ricca di modernità ha sviluppato, produceva un linguaggio rivoluzionario d’estrema sinistra. In effetti, questo «gauchisme» parolaio e falsamente radicale, era una volta ancora una critica all’interno del sistema e non una critica del sistema. Gli agenti sociali della contestazione erano degli individui e dei gruppi che si sforzavano di conquistare delle posizioni dominati all’interno della società capitalista, ma che non avendo i mezzi per conquistarle delle posizioni sul piano economico, adottarono una strategia di dominazione simbolica criticando gli antichi modi di vivere e imponendone dei nuovi (largamente ispirati dalla America way of life). Questa piccola borghesia aveva sete di distinzioni, di benessere e di piaceri. Le classi dirigenti e dominati, dapprima spaventate dall’esplosione della contestazione alla fine degli anni 60, si sono rapidamente rassicurate quando hanno capito che le nuove generazioni non mettevano veramente in questione il dominio del capitale sul lavoro e i principi fondamentali del liberalismo economico. La «rivoluzione» di cui era questione in effetti non era che una rivoluzione di palazzo, una sorta di colpo di stato dei vizir per impadronirsi del trono del califfo. I dominatori hanno capito che non bisognava commettere l’errore di reprimere questa contestazione, ma che al contrario bisognava trarne partito, servirsene per rendere meno rigido e modernizzare il sistema, riformando alcuni aspetti del suo funzionamento, senza toccarne l’essenziale. Hanno capito che bisognava, tramite una legislazione e delle regolamentazioni appropriate, lasciare agli individui l’impressione di essere liberi di vivere a loro guisa, d’agire secondo i loro umori e la loro fantasia. La liberalizzazione dei costumi privati e pubblici ha per effetto d’integrare più fortemente le popolazioni al sistema di mercato,come di consolidare la loro adesione alla organizzazione capitalista dei rapporti sociali. Dall’esempio della nuova piccola borghesia, le nostre popolazioni, nell’insieme, sono diventate molto preoccupate della qualità della vita». Ognuno vuole esprimere la sua propria creatività, facendo della propria vita un’opera d’arte, la più confortevole, la più armoniosa, la più seducente possibile. Il capitalismo a ogni interesse ad incoraggiare questa ricerca individuale della qualità che rinchiude l’individuo nelle sue strategie di distinzione e i suoi fantasmi di riuscita personale e che comporta per di più il consumo di una grande quantità di beni materiali e simbolici, poiché il livello dei consumi é diventato il segno per eccellenza della riuscita sociale. torna al testo
3) Rifiutare gli stili di vita piccolo borghesi non significa condurre la propria vita come un asceta, come qualcuno ha potuto crederlo. Non credo che ognuno deve comportarsi quale un asceta. Ci sono già troppe persone in questo mondo, comprese le nostre «società dell’abbondanza», che sono costrette a vivere in un ascetismo di rigore spaventoso, contro il loro parere, semplicemente perché sono dei «dannati della terra», e dei «forzati della fame», come l’Internazionale lo canta.
Non si deve certamente avere l’indecenza di predicare l’ascetismo a quelle persone. (E poi credo che ogni dottrina religiosa o filosofica e ogni regime politico che predica l’ascetismo, il rigore e l’austerità per i poveri, devono essere combattuti vigorosamente).
Invece, quando si constata, come lo faccio (e non sono il solo oggi), che una grande parte della popolazione della nostra società, non solamente nelle classi possidenti, ma pure in quelle medie, é alienata dalla logica dell’arricchimento propria al sistema capitalista, ossessionata dal desiderio di guadagnare sempre più per consumare ancora, che crede che più si guadagna e più si sperpera più si da la prova che si fa parte di una specie superiore, quando faccio questa constatazione, ebbene si, credo che il mio dovere civico e morale, come pure il mio dovere di intellettuale, sia quello di proclamare che non esiste liberazione possibile senza uno sforzo per vivere differentemente, cessare di essere una mercanzia che consuma mercanzie, uno sforzo per acquistare meno, meno ammassare, meno sperperare, meno riempirsi, meno gozzovigliare, meno essere schiavi di tutte le voglie e di tutte le mode.
E’ una maniera più degna, più intelligente, più umana, in breve, più civilizzata di vivere sulla Terra, di rispettare i propri simili e di rispettare se stessi. torna al testo