Esteban Levin
“De modo que ella, sentada con los ojos cerrados, casi creía en el País de las Maravillas, aunque sabía que tenían que abrirlos para que todo se transformara en obtusa realidad”.
-Lewis Carroll, “Alice nel Paese delle Meraviglie”.
Fino a non molti anni or sono le bambine giocavano ad essere madri di piccole bambole, fantocci bebé, con le quali si dilettavano nei loro giochi di mamma. Si mettevano in scena, identificandosi con essa, rappresentandosi come bimbe, come madri, come bebé, sdoppiandosi nella scena ludica.
Lo spazio di finzione era garantito e costruito in quel mondo infantile; spazio che il bimbo stesso esplorava creando, in tal maniera configurava il proprio universo rappresentativo nell’atto stesso di metterlo in scena.
Però quali scenari ci offre la modernità e quali giocattoli la rappresentano?
Nei negozi di giocattoli, i giocattoli sono ordinati secondo un principio cronologico, ad ogni età il suo gioco, e talvolta secondo le funzioni degli stadi di sviluppo (quelli che appartengono al “senso-motorio, al “pre-operatorio, ecc …). Classificati, omologati e uniformati per ogni età in accordo al supposto sviluppo, c’é un “oggetto-gioco” ideale con il quale il bambino deve fare ciò che deve consumare.
La modernità considera il bambino come un oggetto di consumo globalizzato in se stesso, per il quale si fabbricano migliaia di prodotti che l’infanzia si incaricherà di consumare in serie (fedelmente alla proposta).
Uno di questi moderni oggetti ha potuto compire i quarant’anni. Ci riferiamo alla bambola Barbie, che fu presentata sul mercato nel 1959. Questo modello adulto e bello di bambola, si é trasformato nel paradigma del gioco della modernità; con tutti i suoi accessori, vestiti, borsetta, portamatite, matite, profumi a attributi femminili ideali (corpo e immagine perfette) (1).
Barbie aveva una predecessora: la “play girl” Lilli, una bambola tedesca destinata al consumo sessuale di uomini adulti, bambola che si acquistava facilmente nei bar e nelle tabaccherie. La società Mattel comprò i diritti sulla bambola Lilli alla società Hauser e seppellì per sempre la storia della “play girl”, l’altra scena di Barbie.
Barbie, ideale di consumo e di modernità, é la bambola più famosa del mondo. Per quell’ideale, molte bambine cercano d’imitarla o al meglio di assomigliarle come modello corporeo ideale da raggiungere. Essere uguale alla bambola più sognata dagli adulti, la più promozionata e perfezionata da loro, è una immagine irraggiungibile. Questo ideale impossibile per una bambina, non solo la ubica in una posizione che anticipa i tempi del suo sviluppo, ma ogni volta la equipara ad una donna adulta.
La Barbie come rappresentazione iconica della modernità ci permette di pensare l’infanzia come oggetto da consumare dentro il mercato globale. Il tempo del bambino é organizzato progressivamente con crescenti quantità di attività, consegne, proposte e giochi già determinati, specificati e classificati preventivamente per il consumo, in accordo con un ideale adulto, che, per il piccolo, risulta impossibile afferrare e comprendere.
Non abbiamo mai visto una Barbie piangere, o percepire dolore, o che abbia difetti, o nemmeno padri, nonni o una determinata genealogia; nemmeno abbiamo visto nessun super eroe della modernità (come per esempio Rambo) provar dolore o soffrire con il suo proprio corpo. Ovvero, sono modelli stereotipati che non sentono, che sono, che stanno per essere consumati e per generare questa immagine senza sensibilità. Si vedono morti, sangue, pezzi di corpo, però senza dolore.
Rambo, Barbie, propongono un nuovo moderno specchio per il bimbo, dove il dolore e la singolarità non esistono. A riflettersi in essi i bambini creano una immagine scissa dalla sensibilità, un immagine che li pone a consumarla continuamente e nuovamente senza sentirla.
Dovremo allora tornare alle prime sensazioni del bebé e riflettere a riguardo di come essi costruiscono la sensibilità, per esempio al dolore? Cosa sente un bambino di fronte al dolore? Come si articola il dolore nella sua immagine?
L’interrogazione si rivela essere pertinente. Ancora non molti anni addietro si supponeva che il dolore fosse trasmesso da alcune fibre nervose che non erano ancora sviluppate nel neonato o nel nato prematuro. Di fatto si praticavano interventi “minori” di chirurgia infantile senza anestesia (ernie inguinali, stenosi del piloro, circoncisione). Studi posteriori conclusero poi che pure i nati prematuri erano sensibili al dolore.
Rispetto alle sensazioni dolorose l’adulto dispone di sistemi difensivi che, tuttavia, il bebé non possiede. Per esempio il sistema inibitorio dell’influsso propriocettivo e principalmente la secrezione di endorfine (un sorta di morfina naturale). Nel lattante il sistema inibitore endorfinico è poco funzionale, inoltre alla nascita i recettori delle endorfine sono poco numerosi, questi si conformano poi progressivamente nella maturazione del bebé.
Da un punto di vista medico ci sono alcuni segni fisici che possono manifestarsi come indicatori del dolore: aumento della frequenza respiratoria, dilatazione delle pupille, accelerazione del polso, crescita della tensione arteriosa, atonia psicomotoria, lentezza o mancanza di movimenti, irritabilità tensionale, fra altre cose.
Questi segni di dolore sono poco specifici e, siccome i lattanti non possono parlare, i pediatri portano la loro attenzione ai registri materni o dei familiari più prossimi, e affermano: “non c’è nessuno che conosca meglio il proprio bambino”.
Possiamo dire che è tramite l’Altro che il pediatra potrà repertoriare gli indici quali il dolore corporeo del bebé.
Dato il grado di indifesa del bimbo alla nascita, la difesa contro il dolore corporeo passerà nel campo dell’Altro. E’ all’Altro materno che per primo duolerà il dolore del bambino. In prima istanza il dolore del bambino passerà dal dolore che l’Altro interpreterà e decodificherà come se fosse se stesso. La madre prova il dolore del bebé come proprio, ed è dal suo proprio dolore che decodificherà il dolore del bimbo.
Il dolore nasce così da questo incontro. Incontro della sensibilità nascente del piccolo con l’affetto materno, che riporta e include il dolore del bambino in un telaio simbolico.
Il bebé non può comprendere il dolore come dolore in sé, visto che non ha costituito ancora la sua immagine e il suo schema corporeo riferito a se stesso. Per farlo deve poter dire “mi duole”, ossia, costituire una immagine corporea da dove riconoscersi e differenziarsi dall’Altro.
In questo tragitto il bambino passerà dal “mi duole” materno al “mi duole a me”, dove finalmente la sua sensibilità, propriocettiva, interocettiva e cinestetica, si coniugherà con la immagine corporea del sé, conformando poi il suo “io” immaginario e con esso la possibilità del registro corporeo del dolore.
A partire dalla sua immagine, il piccolo potrà percepire il dolore come una certa esteriorità-scomodità, come una stranezza di se stesso che invade il suo corpo immagine.
Sarà allora lui che domanderà aiuto all’Altro per calmare il suo dolore, che in questa maniera mai sarà solo corporeo, dato che annoderà la propria dimensione di esistenza soggettiva e marcherà nello stesso tempo la differenza tra il suo corpo e l’Altro.
In un primo momento il bimbo incorpora il registro del dolore dell’Altro, che gli assegna un senso possibile al vissuto corporeo. E’ la madre che suppone tramite il suo dolore il dolore del bebé. Solo in un secondo momento il bimbo ri-significherà quel dolore come il suo. Lui ha un dolore, ciononostante non è il dolore, sino a quando lo ha perché la madre lo ha nominato come tale, e se lo è appropriato e incorporato come referenza corporea di se.
Si situano così due tempi logici del registro: l’appropriazione, la incorporazione e risignificazione del dolore; durante la temporalità istitutiva e costitutiva della infanzia.
Il primo tempo potremmo chiamarlo tempo dell’attesa, visto che dipende dalla supposizione materna (campo dell’Altro) rispetto il corpo e il dolore del proprio bebé.
Il secondo tempo sarà quello della risignificazione, finché avrà incorporato il vissuto del dolore come iscrizione significante del suo corpo, ciò che finalmente gli darà la possibilità di ri-conoscersi ed accedere alle proprie rappresentazioni
Il funzionamento parentale e quello del figlio conformano uno scenario dove la posta in gioco del dolore corporeo, come esperienza soggettivante, da un lato li complementa (uno fa dell’altro il suo supplemento) e d’altro lato contemporaneamente li differenzia separandoli, strano specchio che si sdoppia in multiple scene strutturanti.
Il sentimento di dolore riverbera, risuona e vibra, sia nel bimbo come nella madre, a condizione che lei non sia una Barbie e si lasci trasportare dal suo bambino più in là della sua immagine. Il sentimento del dolore riverbera, risuona e vibra in uno scenario di finzione. Scenario che, al mettersi in gioco, aprirà il campo della rappresentazione e il piacere nella scena che culminerà rappresentandolo.
Bibliografia
Calligaris, Contardio, “Crónicas do individualismo cotidiano”, Edit. Atica, San Pablo, 1996.
Freud S., “Inhibición, síntoma y angustia”, en Obras Completas, Amorrortu, Bs. As., 1986.
Revista de Occidente, “el dolor”, Madrid, 1978.
Levin, E., “La infancia en escena: constitución del sujeto y desarrollo psicomotor”, Edit. Nueva visión, Bs. As., 1995.
Winnocott, D., ”Escritos de pediatría y psicoanálisis”, Edit. Laila, Barcelona, 1979.
Note
1) Barbie fu creata da una donna, Ruth Mandler, co-fondatrice della compagnia Mattel. La figlia si chiamava Barbara. Le proporzioni fisiche della bambola sono impossibili da imitare, anche se molte bambine-donne “vivono” perseguendole. Questo è il caso di Cindy Jackson, che si sottopose a 20 operazioni estétiche per diventare più somigliante possibile alla Barbie (con un costo approssimato di più di 55’000 dollari). Il CD Rom “Barbie disegna con te” è un programma dove la bambola sfila nello schermo del computer e la bambina può vestirla in accordo all’ultima moda. La multinazionale Mattel esporta i suoi prodotti in più di 140 paesi.
Le derivazioni sono multiple e le vendite raggiungono proporzioni inimmaginabili per una bambola di 30 centimetri, trasformata in caricatura e fedele rappresentante di ciò che la modernità offre alla infanzia. torna al testo