Alto potenziale cognitivo e intellettualizzazione delle emozioni

Perché si fa fatica a riconoscere l’intelligenza dei bambini?
Perché rispetto all’alto potenziale cognitivo di taluni bambini si fatica ad evitare un qualsiasi approccio impregnato da transfert negativo?
Perché, per la maggior parte degli operatori educativi (docenti, pedagogisti, psicologi), l’intelligenza di un bambino plusdotato deve essere sempre ed inequivocabilmente un segno di malattia relazionale?
Perché, per la maggior parte degli operatori educativi (docenti, pedagogisti, psicologi), l’intelligenza di un bambino plusdotato deve essere svalutata. “Si é intelligente però …”
Perché un bambino ad alto potenziale cognitivo deve essere sempre considerato come frutto di una negazione delle sue emozioni?
Perché di fronte ad un bambino intelligente gli operatori mortificano la sua individualità e la sua specificità affettiva, affermando che la sua intelligenza é solo il segno di una intellettualizzazione delle relazioni e delle emozioni, o di una intellettualizzazione delle dinamiche e delle problematiche familiari?


Purtroppo per una grande parte di bambini ad alto potenziale cognitivo i problemi affettivi e relazionali cominciano proprio quando hanno la disavventura d’imbattersi con le figure che devono occuparsi dell’infanzia.

E’ notorio che ci sono dei dislessici plusdotati e dei debili mentali che leggono.
Quale allora lo statuto dell’intelligenza?
Il persecutorio controllo dei meccanismi di codifica e trascodifica e di dizione, i processi computazionali, gli algoritmi automatizzati, la creazione di relazioni, la ricerca di immagini astratte, o che altro?
L’iperadattamento ai ritmi scolastici, alla noia della ripetizione, all’attesa composta della prossima scheda? Oppure all’espressione “terapeutica” dei conflitti familiari, dei conflitti personali, ultima frontiera di un voyeurismo educativo? 
Il tema della supposta “intellettualizzazione” dei bambini, pur vero in qualche caso, cela malamente, e malauguratamente, un approccio banalizzante dell’intelligenza, un approccio preconcetto – essere intelligenti é considerato notoriamente un segno nevrotico -.

Un bambino che a scuola “non va” … Generalmente l’origine del disagio, “la colpa”, é sempre sua. Al meglio, una caritatevole pulsione protettiva storna la colpa sui suoi genitori.
Solo in casi al ribasso del livello degli apprendimenti viene concessa una differenziazione dei programmi. Mai al rialzo. Insomma un programma scolastico può sempre essere troppo difficile, per alcuni, ma mai troppo facile, per altri.
Prevale una logica della svendita. Appunto … la svendita dell’intelligenza.
Come dire, posso solo riconoscere la stupidità, mai l’intelligenza (riconoscere=individuare).
In queste condizioni, considerare un bambino nella sua interezza ha del miracoloso.

Ditemi allora si tratta di un problema cognitivo o si tratta di un problema “d’intellettualizzazione delle relazioni e delle dinamiche familiari”?

Ecco due esempi.

Un bambino di terza elementare redige un testo, descrittivo, di circa 14 pagine manoscritte fitte fitte.
Gli errori ortografici si contano sul numero di una mano: due.
Qualche giorno seguente la consegna del testo, il ragazzo, come tutti i suoi compagni, ha una nuova consegna. Deve ricopiare “a bella” tutto il testo. A domanda dei genitori il docente risponde: è vero, non c’è nessun scopo educativo e didattico, ma deve farlo come tutti.
Non vi racconto la crisi e la delusione patita, il tempo festivo (domenicale) passato a ricopiare il testo, pezzo per pezzo, tale e quale. 
Fondamentalmente due gli esiti, temporalmente successivi.
Il primo, una sonora frustrazione, una profonda umiliazione nel non vedere riconosciuto il proprio sforzo, nel non vedere riconosciuta la propria produzione. Rabbia repressa, rimossa, tristezza, rinchiusa in una postura oramai irrigidita.
Il secondo? L’iperadattamento. Questo ragazzo non ha mai più prodotto nessun tipo di testo più lungo della dovuta paginetta.
Ditemi allora? Dove stava la festa? Quale “intellettualizzazione delle dinamiche e problematiche familiari”, ha subito, quella domenica, quel ragazzo?

Il secondo esempio tratta di un bambino alla scuola dell’infanzia. Di età 5 anni circa, quel bambino disegna. Disegna un disegno abbastanza tipico nei suoi tratti formali. Una casetta in basso, un prato, un albero, le montagne in alto, il cielo azzurro, il sole. Sino a qui nulla da eccepire, come tutti i bambini disegna questo paesaggio identificando un basso e un alto. Come tutti, come da “modello”, appunto.
Poi succede qualcosa. Quel bambino comincia a colorare con un colore verde tutto quello spazio che, tra il basso e l’alto – la fascia orizzontale mezzana del foglio per intenderci – che, d’abitudine i bambini di quella età, e pure più grandicelli, lasciano in bianco.
Intellettualmente, diremmo, scopre i rapporti topologici di vicinanza, i rapporti proiettivi davanti-dietro, i rapporti euclidei di distanza. Si pone un problema cognitivo …

Quale la reazione dei compagni di classe? “Ma stai colorando il cielo di verde”. Opponendo, alla visione del compito del bambino, una altra visione; quella che sa che l’aria è trasparente e che quindi quello spazio va lasciato vuoto …
“Ma stai colorando il cielo di verde” continuano i compagni. E il bambino: “ma no guarda … vedi … guarda … i prati continuano, la terra non si ferma, c’è sempre qualcosa … E loro: “Ma stai colorando il cielo di verde”. E lui, per cercare di risolvere quel conflitto cognitivo, comincia a colorare pure un lago, riproducendo le caratteristiche morfologiche della zona in cui vive …

E loro chiamano la maestra: “sta colorando il cielo di verde”. “Fa il lago in cielo”
E la maestra? … per farla breve, incapace di sostenere una ricerca cognitiva, una intelligente ma purtroppo solitaria (e precoce) ricerca intellettuale, per evitare problemi e conflitti, taglia corto. “Non si fanno i prati in cielo”. Ritira il foglio al bambino – reo di troppo realismo – e quello che si è visto si visto.
Quale la reazione del bambino?
Dite.
Frustrazione? Emozioni tarpate dalla intellettualizzazione delle dinamiche familiari e dalla intellettualizzazione delle emozioni?
Quale l’alternativa concreta per il bambino? Piangere, esprimere l’orgoglio ferito, cercare conforto, cercare sostegno emotivo? O intellettualizzare le dinamiche scolastiche?
O più semplicemente un blocco di tristezza ed umiliazione?
Immaginate voi.

Considerare un bambino nella sua pienezza mi sembra sempre più qualcosa del miracoloso.