Democrazia e scuola, l’educazione è una struttura di dipendenza che educa all’autonomia

Raffaele Mantegazza

La democrazia è un modello di strutturazione della vita pubblica: uno, non il peggiore, forse non il migliore, certo oggi a nostro parere quello preferibile agli altri che sperimentiamo in giro per il mondo. Siamo del tutto convinti dei limiti storici e politici della democrazia e della necessità di un suo superamento che costituirebbe anche un suo inveramento; siamo convinti che la democrazia mostra le corde in caso di conflitti di classe acuti, che si tratta di una creazione borghese con tutta la grandezza e i limiti della borghesia, che si tratta di una creazione occidentale, con tutta l’innovatività e la ristrettezza dell’Occidente; cionondimeno, riteniamo che almeno in questa fase tragica e per certi versi decisiva dello sviluppo storico mondiale la democrazia, con tutti i suoi limiti e il suo accennare al proprio superamento, si presenti come la migliore delle forme di governo possibili. Occorre però che essa si presenti come vera democrazia, e non come un suo surrogato: se infatti non si può pensare che la democrazia sia esportabile, proprio perchè per definizione essa è un prodotto di spinte e di movimenti che nascono dal basso (e una democrazia imposta da superpotenze militari è un nonsenso, si sarebbe più onesti chiamandola protettorato), sarebbe utile che sempre più popoli imparassero a lasciarsi contaminare dalla democrazia; piuttosto che la democrazia come merce intendiamo allora la democrazia come virus benigno, come inquietudine che inizia a porre domande, a suscitare critiche, a far nascere ribellioni in situazioni di oppressione e di dittatura.

Ma qual è la chiave per comprendere l’essenza della democrazia? Se si tratta di un modello, quasi di un congegno per regolamentare la vita associata dei cittadini, essa si basa sulla semplice ma decisiva idea secondo la quale sono i cittadini stessi a scegliersi i propri dominatori. La democrazia si basa sull’assoggettamento volontario di tutti i cittadini e le cittadine ai rappresentanti che tutti essi/e hanno eletto o, in caso di democrazia diretta, alle leggi e della norme che tutti essi hanno votato. Ma che cosa significa “tutti”? Di volta in volta la democrazia ha allargato questo concetto, inserendovi i poveri, le donne, altri soggetti nei confronti dei quali il dibattito è ancora aperto; si pensi all’idea del voto dei cittadini stranieri. In una esperienza di ricerca compiuta presso gli immigrati italiani a Stoccarda ci siamo resi conto che i nostri concittadini in quelle terre manifestavano molto più interesse ad acquisire il diritto di voto per i consigli comunali o dei Lander tedeschi, le cui decisioni li riguardavano direttamente piuttosto che quello per i loro rappresentanti in un Parlamento italiano che ovviamente sentono più distante e astratto per le loro condizioni materiali di vita. Se questo vale e ha senso per i nostri connazionali sarebbe ipocrita e razzista non riproporre lo stesso ragionamento per i cittadini stranieri presenti sul nostro territorio i quali dovrebbero a nostro parere essere compresi nell’elettorato passivo e (come minimo) in quello attivo almeno per la costituzione degli enti locali.
Un altro elemento importante per inquadrare un sistema democratico e per renderlo attivo anche a livello educativo è sottolineare che le cariche in una democrazia sono sempre a termine e mai legate alla persona come tale ma alla sua funzione. È ovvio che in una democrazia non esistono cariche “a vita” se non in senso simbolico (l’idea di riformare l’istituto dei senatori a vita per esempio si sta facendo largo in questi anni, ed ha una sua logica, al di là del suo pietoso uso in chiave tattica quando i senatori a vita votano a favore dello schieramento opposto al proprio), e deve essere altrettanto ovvio che non esiste una qualche misteriosa e sacrale“leadership” che legittima un capo e che lo rende tale, trasmettendosi magari di padre in figlio; la democrazia è differente da altri sistemi politici perché non è prevista in essa per le cariche che la contraddistinguono alcuna unzione, alcuna legittimazione soprannaturale, ma solamente il fatto formale dell’acquisita maggioranza nel voto. Il che è come dire che la democrazia trova la sua legittimazione in se stessa e nei sistemi formali sempre perfettibili ma comunque equilibrati che essa esibisce e sui quali si sostiene.

Per quanto riguarda la questione del gioco delle verità e della libertà di espressione soprattutto attorno ai temi fondamentali della vita umana (si pensi alla generatività, alla nascita, alla sessualità, alla morte), ci sembra ovvio ribadire che una democrazia può solamente essere relativista; non nel senso di ignorare o di schernire la ricerca della verità ultima che ogni soggetto è libero di portare avanti a seconda della sua fede o ideologia; ma nel senso di non trattenere per sé e di non privilegiare nessuna risposta alla questione della verità: la democrazia è scettica perché questa è la sola posizione che permette realmente a tutte le risposte possibili di confrontarsi e di convivere; pretendere l’avallo dello Stato o della politica alle proprie posizioni dottrinali rendendole obbligatorie per tutti è un atto di violenza intollerabile e costituisce il vero discrimine tra il fedele, che rivendica giustamente uno spazio nel quale professare liberamente la sua fede e cercare individualmente o come collettività di convincere gli altri e le altre, e il fondamentalista che si affida al braccio secolare – che tanto dice di disprezzare – per operare quelle conversioni (spesso esteriori e di maniera – per fortuna!) che forse non è più in grado di realizzare.

Ma forse la cosa più importante per educare alla democrazia è sottolineare che, proprio in conseguenza di quando detto sopra, non esiste un sistema “più” o “meno” democratico, così come non si può introdurre “un po’” di democrazia in uno Stato, una associazione o una istituzione. La democrazia è un gioco a somma zero: o c’è o non c’è, il che significa che in un sistema o i capi sono eletti da tutto il popolo oppure no; nel secondo caso non siamo in presenza di un sistema democratico, ma di qualcosa di differente. Intendere la democrazia come un concetto graduato significa stemperarne la potenza educativa e politica e soprattutto contribuire a creare ibridi politici, organismi nei quali una sostanziale impunità e ingiudicabilità dei dominanti viene coperta da una serie di graziose concessioni pseudo-democratiche che assicurano ai dominanti stessi un formale consenso; ricordiamo che anche il Duce indisse un patetico e penoso plebiscito!

Ma se quanto detto sopra è vero, è allora implicito che un sistema formativo non può essere un sistema formalmente democratico: se i ragazzi non possono scegliersi gli insegnanti attraverso un voto (e al di là della demagogia di moda ci sentiamo di dire: che Dio ce ne scampi!), se i programmi scolastici sono predisposti dal Ministero e vengono poi sottoposti ai giovani e alle giovani senza sostanzialmente chiedere un loro consenso, se insomma l’educazione è per sua struttura basata su un dislivello di potere tra educatore/trice ed educando/a, allora siamo di fronte all’apparente paradosso di una struttura formalmente non democratica che però deve educare alla democrazia. Ma il paradosso è solo apparente: l’educazione è una struttura di dipendenza che educa all’autonomia e dunque la relazione educativa è una relazione non democratica che, lavorando alla sua stessa fine, alla sua stessa estinzione, alla sua stessa morte, contribuisce, in quanto antropogenesi, a mettere al mondo soggetti democratici. 
Questo ovviamente può accadere soltanto se le strutture educative sono inserite in una società democratica e ne rispettano le regole di trasparenza e partecipazione; solo l’assoluta democraticità nella gestione delle istituzioni e dei servizi educativi, la pratica democratica quotidiana nelle relazioni tra colleghi, il rispetto delle decisioni prese collegialmente, solo la copresenza di queste caratteristiche che devono essere tipiche di ogni servizio (soprattutto pubblico) permette che l’educazione lavori per la democrazia; permette, in altri termini, che alla fine dell’educazione, alla morte della relazione educativa, allo sciogliersi del rapporto pedagogico, nasca, con l’adulto democratico, l’adulta democrazia.

Il presente articolo è stato pubblicato in Verifiche.ch n° 1, febbraio 2008, Mendrisio

Due brevi domande per due risposte


Verifiche: Lei afferma che “l’educazione è una struttura di dipendenza che educa all’autonomia”. La domanda retorica potrebbe essere: quale autonomia? se l’allievo è mal formato? Se è selezionato, bocciato, ecc …

Mantegazza: Comincerei col dire che bocciatura non è affatto sinonimo di selezione o peggio di dispersione; anzi, la vera selezione sociale oggi si attua con la politica del “todos caballeros”, dei tutti promossi, che rinvia per esempio al biennio delle scuole superiori una selezione che poi diventa strage didattica; qualcuno deve spiegarmi infatti come sia possibile che se in III media il 95% dei ragazzi viene promosso, quattro mesi dopo, in I superiore, il 34% di quegli stessi ragazzi ha la media del 4. La scuola democratica è una scuola che ha il coraggio di pretendere il raggiungimento degli obiettivi minimi da parte di tutti e tutte (non uno di meno); e che sa che la bocciatura è un investimento di tempo e non una punizione; se la bocciatura è dedicare un anno in più a un progetto sul ragazzo –su questo particolare ragazzo che in questo particolare momento della sua vita ha bisogno di più tempo – allora la scuola che boccia in questo modo è molto più democratica dell’indecoroso buonismo attuale che ha dimenticato che educare il cittadino significa educare una persona competente e forte sul piano culturale.

Verifiche: Lei scrive che “solo l’assoluta democraticità nella gestione delle istituzioni e dei servizi educativi, la pratica democratica quotidiana nelle relazioni tra colleghi, il rispetto delle decisioni prese collegialmente, … permette che l’educazione lavori per la democrazia”. In termini concreti cosa significa?

Mantegazza: Significa che occorre rivalutare realmente la collegialita’, che spesso molti colleghi intendono quasi come un fastidio. Significa che occorre ri-legittimare i Decreti Delegati che dettano il diritto-dovere e soprattutto i limiti dell’intervento delle famiglie e degli studenti nella gestione democratica della scuola. Significa che gli /le insegnanti devono tornare a considerare la formazione in servizio come un diritto che in passato è stato strappato a fatica e non come una noia. In Italia significa soprattutto schierarsi per la scuola statale – l’unica che sia democratica non per scelta ma per essenza Costituzionale – e ribadire che l’unico vero datore di lavoro dell’insegnante è il Parlamento.