Michel Thévoz
Se ci atteniamo a una predizione di André Malraux, la rivoluzione che marcherà il XIX secolo sarà quella dell’insegnamento. Il prolungamento dello statuto d’adolescente, la generalizzazione della domanda di sapere e di perfezionamento, la liberazione del tempo grazie all’informatizzazione, la sollecitazione culturale e partecipativa della società postindustriale, la prospettiva di una ripartizione del lavoro come alternativa alla disoccupazione strutturale, ecc già da adesso domandano una trasformazione radicale del sistema scolastico, nel senso della estensione e della diversificazione delle discipline, come quello dello sviluppo personale e individuale.
Il principio stesso di selezione, con tutti i disastri psicologici che sviluppa e trascina, dovrebbe sparire grazie alla moltiplicazione delle opzioni; una moltiplicazione tale da permettere ad ogni individuo scolarizzato di trovare materie sufficienti per sviluppare le proprie singolari attitudini e a realizzarsi fisicamente, intellettualmente e artisticamente.
Siamo comunque ancora lontani da quel scenario. “Sofia non ha superato la matura. Figuriamoci! Non fa che pensare alla danza, lei! Ne fa sei ore al giorno, vuole diventare una stella della danza, lei!” L’adolescente che, proprio accanto a me, raccontava questi propositi alle sue compagne e compagni nel bus aveva torto ad attribuire questo smacco a Sofia. Sarebbe stata ben più accorta se avesse messo in causa un sistema scolastico fondato su valori di redditività economica e di competizione, e che penalizza una liceale perché ha una passione. Non sarebbe questa la migliore delle ragioni per farle riuscire la sua matura?
Certamente, la scuola riserva un posticino all’arte nei suoi programmi – ma, evidentemente, c’é un mezzo radicale per uccidere la creatività: assegnargli un terreno protetto, del tipo “attività artistiche”, modellismo, flauto dolce o lavoro manuale, domìnii assimilabili alle riserve indiane o alle riserve delle specie in via d’estinzione.
Sotto il pretesto (talvolta sincero) d’incoraggiare la creatività, di animarla, d’organizzarla, ci si accinge a gestirla e a controllarla, ciò che equivale a neutralizzarla. Dal momento in cui i pedagoghi affrontano il tema della creatività si congegnano i mezzi più sicuri per circoscriverla in un ghetto. Ma, la creatività opera preferibilmente dove meno ce la aspettiamo, forse anche nelle matematiche o nell’informatica. La creatività detesta vedere pronunciato il suo nome.
E ha ragione, perché l’accezione usata generalmente dai responsabili dell’insegnamento ratifica superbamente l’appunto di Nietzsche: “una parola già é un pregiudizio”. Nello spirito della maggioranza degli insegnanti, la creatività é accomunata a ciò che si considera “ricreazione”, in opposizione al lavoro d’assimilazione del sapere, al suo studio. E nel migliore dei casi si ammette la sua necessità in quanto intermezzo ludico benefico al programma scolastico. Questa dicotomia deriva direttamente dall’ideologia utilitarista e materialista della borghesia industriale del XIX secolo, polarizzata sui valori d’efficienza e di redditività. La gerarchia delle discipline scolastiche vede alla sulla cima le matematiche, seguite via via dalle lingue, dalla storia, dalla filosofia ed infine, last and least , dalle discipline artistiche, con il loro rispettivo coefficiente regressivo. Questa gerarchia si ordina sulle coppie manichee dell’utilità e della gratuicità, della disciplina e del gioco, della ragione e della fantasia, del produttivo e del dispendioso e inutile, del serio e dello strampalato, del dovere e del piacere, dell’ordine e dell’anarchia, e, precisamente, dell’apprendimento e della creatività.
Eppure, pur adottando questo punto di vista strettamente utilitarista, questa polarizzazione diventa disfunzionale e controproducente. In questo modo, il sapere matematico, ostinatamente presentato come la disciplina per eccellenza, garante del metodo e della logica, genera per queste stesse ragioni dei blocchi psicologici sovente redibitori. Non ci si accorge che i rapporti matematici sono per così dire inerenti alla creatività stessa e operanti eminentemente pure nella poesia, nella pittura e nella musica. Se siete bloccati in mate, imparate a suonare il sassofono, iniziatevi agli arpeggi, alle inversioni degli intervalli, alle trasposizioni di tonalità, alle combinazioni di contrappunti: farete matematica come il Signor Jourdain fa prosa, assimilandoli non solamente nel vostro spirito ma anche nella vostra affettività e nel vostro corpo. Oppure, piuttosto che scattare delle fotografie, divertitevi a disegnare i luoghi che visitate applicando le regole della prospettiva, questa matematizzazione dello spazio sensibile. Ancora una volta, pure ergendosi ad avvocato del diavolo, ed adottando ugualmente i criteri utilitaristi, bisogna ammettere che le espressioni plastiche, musicali, ecc non sono delle diversioni, un costoso tributo che l’uomo civilizzato deve alla cultura, ma componenti essenziali dello sviluppo intellettuale.
La democratizzazione degli studi, indiscutibilmente desiderabile nel suo principio, nei fatti é consistita nella sostituzione della selezione sociale con una selezione tecnocratica ancora più feroce, obbediente a criteri d’efficacia economica, tecnica, informatica, amministrativa, commerciale, ecc , privilegiando conseguentemente le discipline considerate “redditizie”. Era d’altronde logico che le procedure di selezione si calcassero sulla competizione economica. Partire dall’idea che un solo quarto degli allievi di ogni classe d’età acceda agli studi superiori, servirsi delle note e degli esami come d’un imbuto strangolatore e regolatore di questo flusso, equivale a praticare il numerus clausus senza dirlo, ma equivale a persistere nella sottomissione prematura dei bambini e degli adolescenti a un sistema concorrenziale impietoso che fa di ognuno il nemico degli altri e gli altri il nemico di ognuno. Significa spossessarli della loro infanzia. Significa applicare sulla loro pelle le regole della selezione e dell’eliminazione sorte dal capitalismo proto-industriale; delle regole che gli adulti occidentali hanno umanizzato, e per quanto concerne loro, riformato da molto tempo. Nessun adulto, e tanto meno nessun sindacato, accetterebbe di praticare nella vita professionale l’orario di lavoro che viene inflitto agli allievi delle scuole svizzere.
Il risultato di questa selezione neo e ultra-darwiniana, é la formazione di una élite superstite realmente adattata all’apparato tecnocratico. Ma il riscatto di queste performance individuali minoritarie, sono gli scacchi, le umiliazioni, lo stress generalizzato, i disturbi di carattere, le depressioni, il ricorso alla droghe illegali o farmaceutiche, i suicidi d’adolescenti, ecc Gli psicologi sanno che i ragazzi vittime d’abuso provano un sentimento di colpa piuttosto che di rivolta, e che raddoppiano, interiorizzandola, la violenza che gli viene inflitta. D’altronde, all’occorrenza, se i gruppi di pressione si moltiplicano (sindacati di docenti, associazioni genitori-allievi, commissioni scolastiche di ogni natura), gli interessati principali, gli scolari, non dispongono di nessun organo di riflessione, di rappresentanza e d’intervento. Piuttosto la politica scolastica consiste essenzialmente nel dissuaderli dal preoccuparsi di ciò che li riguarda. In tale contesto, ammettiamolo, sarebbe indecente parlare di creatività.
Certamente, fronteggiando la vastità del disastro, e a titolo riparatorio, i responsabili dell’insegnamento sono forzati a concedere qualche ora di distensione, generalmente facoltativa, sotto forma d’espressione pittorica, musicale o teatrale. Ma ciò non sono che dei derivati, dispensati sovrappiù a dosi omeopatiche, e che, per denegazione, si ha la faccia tosta di piazzarli sotto il segno della creatività e della immaginazione. Ed affligge ancor di più constatare che, in totale buona fede, e con le intenzioni migliori di questo mondo, molti insegnanti si rendono complici di questa impostura reclamandosi alla pedagogia libertaria. Per esempio, in materia d’espressione plastica credono di dover ricusare qualsiasi eredità culturale, qualsiasi tecnica sperimentata, ogni savoir faire, e praticare il pseudo-naturalismo, l’improvvisazione ricreativa e il ricatto della spontaneità. Stigmatizzano l’osservazione e le tecniche della rappresentazione figurativa come pratiche infide e punitive. Lanciano grida d’orrore alla sola menzione della prospettiva, pertanto una delle invenzioni più geniali di tutta la storia dell’arte. Questa equazione fra spontaneità (che in verità, non fa che produrre del déjà-vu, del prêt-à-penser e delle stereotipie) e creatività contribuisce a svalorizzare la creatività e confermare la legittimità delle discipline “serie”.
Questi pedagoghi sarebbero pertanto ben più ispirati se si mettessero all’ascolto dei ragazzi stessi, i quali non concepiscono per niente il disegno come libera espressione e tantomemo come arte, ma come uno strumento d’appropriazione e di manipolazione simbolica della realtà. Nei primi stadi dello sviluppo, il disegno non si distingue ancora nettamente dai vocaboli e dalla scrittura. I grafismi tracciati dal bambino, come d’altronde i primi fonemi, l’aiutano a differenziare le forme e i colori, a spezzare gli oggetti, a stabilizzarli, a nominarli, a combinarli, e infine a costruire uno spazio oggettivo e averne la padronanza. E’ questa la ragione per cui una vera pedagogia dell’immagine dovrebbe rispondere a questa richiesta sia pratica che simbolica, piuttosto che di svalutarla a ricreazione in rapporto al “vero” linguaggio. A tutti i livelli della scolarità, gli allievi dovrebbero essere iniziati ai processi d’elaborazione delle immagini, a partire dalla grammatica delle forme, dei colori e delle tessiture, passando dalla prospettiva, fino al funzionamento pratico, sintattico e narrativo d’apparecchiature quali la camera cinematografica o video, e tutto ciò in relazione con la conoscenza della storia dell’immagine.
Questa iniziazione alla cultura visiva é oggi tanto più necessaria quanto l’immagine (giornalistica, grafica, cinematografica, televisiva, ecc ) é privilegiata dall’informazione, dalla pubblicità, dalla politica e dai poteri di ogni natura come un possente mezzo di condizionamento o come stupefacente collettivo. L’efficacia anestetica di questo stupefacente scaturisce precisamente dall’analfabetismo che la scuola intrattiene in questo campo. E non prendo d’altronde il pensiero visivo o la pratica musicale che come casi particolari di tutte le attitudini metodicamente rimosse dalla scuola. Tutto sembra essere programmato per fare del futuro cittadino il giocattolo dei poteri: politico, giudiziario, economico, medico, mass-mediatico, ecc … accudendo la sua ignoranza in tutte questi ambiti. Nel contesto scolastico attuale gli insegnati che pretendono sviluppare la creatività, in verità, sono gli ostaggi di un sistema tecnocratico che desidera riscattarsi una buona coscienza.