Paul Aries
La pubblicità non é una cultura nuova, é l’anticultura per eccellenza. La cultura, quanto più la si frequenta precocemente, più si diventa un adulto autonomo. La pubblicità, quanto più vi si é sottomessi precocemente, più si diventa un adepto ancorato, agganciato.
La pubblicità é doppiamente regressiva: uno, perché non può essere efficace che mirando ai fantasmi e alle pulsioni di ognuno; e due, perché, affinché infantilizzi gli adulti, comincia con i bambini. Le marche tentano così di “fidelizzare” i bambini già in precedenza ai due anni di età.
Questo addestramento dei più piccoli non ha in sé niente del naturale o del legittimo: ancora vent’anni or sono, in Francia, era proibito utilizzare direttamente dei bambini per vendere dei prodotti e in Grecia é sempre ancora proibito emettere delle pubblicità per dei giochi nelle ore di visione dedicate a loro … sappiamo bene quanto é facile sfruttare commercialmente i sogni dei bambini e dei ragazzi. Un bambino non fa la differenza tra pubblicità, finzione o realtà. La pubblicità non é solamente un supplemento d’anima di cui il sistema ha bisogno. Essa gli é certamente indispensabile per vendere il prodotto ma al di là di questo gli é indispensabile per far regredire gli individui al livello dei loro fantasmi di base.
La funzione della cultura aveva come scopo quello d’imbavagliare questi fantasmi, queste fobie, per ricordarci che non siamo onnipotenti, che abbiamo bisogno degli altri e che nessuna cosa può rimpiazzare e colmare questo desiderio dell’altro
La globalizzazione in corso chiama all’invasione generalizzata della pubblicità. McDonald non esisterebbe se non potesse bombardarci con i suoi messaggi: ne ha bisogno per spazzare secoli di storia, di umanizzazione delle pratiche alimentari, di rispetto delle figure parentali e identitarie.
La pubblicità resta (ma ancora per quanto tempo) proibita all’interno delle scuole. La protezione dei ragazzi si organizza pertanto anche con il rifiuto di esporli alla pubblicità.
Le marche, certamente, esistono da molto tempo, ma con un senso differente. In altri tempi la fedeltà a una marca era legata all’idea che questa fosse migliore (a torto o a ragione), che i suoi prodotti fossero migliori, più resistenti ed efficaci. La pubblicità mirava a convincerci con degli argomenti pseudo-razionali. In contropartita l’attaccamento attuale alle marche si nutre d’irrazionale, perché mira, prima di tutto, a realizzare una identificazione primaria. Il bambino che esige dei prodotti di una marca definita non giustifica più la sua scelta per la qualità (reale o falsa) del prodotto, ma solamente per il solo fascino del loro nome (logo, segno). Si vuole fargli credere così, che otterrà, attraverso questo nome, una identità sua propria.
Le culture specifiche, le culture locali, si assottigliano cedendo posto a questo surrogato (ersatz) culturale. A questo riguardo, i giovani delle periferie non sono sufficientemente integrati ma molto più e troppo integrati al sistema delle marche, al consumo. Questa ricerca d’identificazione, tramite il mercato, é generatrice di violenza. Questa identificazione non ci mostra solamente le peripezie di uno scacco (come pagarsi i prodotti di marca) ma conduce a un vero mercato di gonzi. In verità non si può mai ottenere un equilibrio sociale o psichico identificandosi a una pubblicità: vale a dire essere un figlio della pubblicità come gli altri esibendo la propria conformità e/o diventare un agente della pubblicità come gli altri (indossando la marca o quant’altro) esibendo la propria conformità.
La posta in gioco é importante: come ci si definisce? Qual’é la proprio identità? I nostri nonni portavano sovente delle insegne religiose, noi portiamo piuttosto delle insegne politiche, i nostri figli portano delle marche: abbiamo dei figli Nike, dei figli Benetton, dei figli MaDonald o Coca Cola! Chiedete di togliere o provate a far togliere il cappellino in alcuni licei: impossibile perché tale richiesta é vissuta come una violenza, la violazione dell’identità stessa del giovane.
La pubblicità é pervenuta ad impadronirsi delle identità, a manipolarle e a trafficarle. Non é un caso che il racket concerne le marche; e questa é ben una ulteriore prova che il mercato porta in sé stesso la violenza.
Per sminuire le persone al rango di consumatore la pubblicità deve investire il profano e il sacro, almeno ciò che era considerato sino allora sacro: profana i sentimenti. le identità, i valori, gli impegni. Ci vende dell’amore, della tenerezza, dell’amicizia, della generosità. Parallelemente sacralizza le cose più profane: “ci alziamo tutti per Danette” (N.d.T.. l’autore fa riferimento a una pub francese che dice: “on se lève tous pour Danette”)! Ma davanti a chi ci si alza (se lève-t-on) se non davanti a un (nuovo) dio? La pubblicità toglie ogni dignità all’umano per trasferirla alle mercanzie. E’ lei che farà di voi qualcuno, se voi appartenete alla massa.
Come la pubblicità rappresenta i consumatori, in breve gli esseri umani? Tale costruttore di automobili vi immagina in un gregge di pecore, tal altro ci vede allineati uniformemente come posti di posteggio. La vita senza marche sarebbe quella del grigiore. Varrebbe la pena d’essere vissuta? Grazie a Renault usciamo dal gregge, grazie a MacDonald d’esistere …
E’ il prodotto che crea la sorpresa, che singolarizza l’avvenimento. E’ il prodotto che rende liberi, irresistibili e onnipotenti. La società vista dalla pubblicità é quella del grigiore e della monotonia. Voi non potrete più niente per voi, per la vostra libertà, il vostro benessere, la vostra felicità: se non, evidentemente, identificandovi a delle marche che daranno senso alla vostra vita. Il consumo di marca creerebbe un sentimento d’esistenza. Eppoi essa vive sul proprio nome e non sull’utilità reale dell’oggetto: un cappellino Nike é principalmente ed essenzialmente il suo logo!
Smettiamola di credere che tutto ciò non sia grave. Non é vero che i giovani d’oggi s’appropriano delle pubblicità per disarmarle. La réclame in altri tempi cercava di parlare con le persone, oggi sono le persone che scimmiottano la pubblicità, che riproducono i suoi gesti e ripetono le sue formule. La pubblicità é una operazione mostruosa di formattazione che mira a far regredire l’individuo al livello delle sue immagini più arcaiche. L’individuo profanato dal mercato non ha altra soluzione che quella d’identificarsi a una marca, o piuttosto a quella parte di umanità che crede vendere. “Loréal perché lo valgo bene” (“Loréal parce que je le vaux bien”), Kronenbourg per avere degli amici, etc.
La pubblicità giocando su mimetismi infantili sviluppa una sorta di normopatia, vale a dire il bisogno infantile di sottomettersi a delle norme. Ammazza l’immaginazione e la creatività degli individui e dei popoli. Così docile e dolce in apparenza come cugina tosta e dura ha la propaganda. E’ dunque la figlia di un nuovo totalitarismo nei mezzi e nei fini.
La pubblicità é dunque ben più della sua funzione commerciale immediata. essa é ci?o che permette di sminuire le persone al rango di semplici consumatori che cominciano col consumare dei prodotti, poi consumatori di altri esseri umani (management moderni, violenze sessuali) e finisce con consumarsi se stesso (doping e sette). I liceali statunitensi hanno mostrato l’esempio conducendo scioperi contro i programmi di pubblicità obbligatori la mattina in alcuni Stati. Bisogna preservare lo spazio pubblico imponendo già il rispetto delle regole. Bisogna formare i ragazzi alla lettura (critica evidentemente) delle pubblicità.