Florio Togni
Qualche postulato generale
Le società moderne sono sempre più meticciate, frutto di molteplici trasformazioni. Le migrazioni ne sono una delle espressioni più importanti e permanenti. Veniamo tutti coinvolti in problemi difficili e complessi. Dobbiamo stare attenti a non cadere nelle interpretazioni semplici, stereotipate, unilaterali. Come pure bisogna riconoscere la legittimità di tutti gli interrogativi, i nostri come quelli delle persone venute d’altrove. «Vivere insieme», vivere con l’altro, vivere tra «altri», ci richiede continui e permanenti sforzi di pensiero, che rimettono continuamente in discussione le nostre acquisizioni e le nostre competenze. Questa capacità riflessiva é una costruzione continua.
Prioritariamente mi sembra importante riflettere al «come» noi riflettiamo i fenomeni migratori. Il fine é quello di avere un quadro di riferimento che ci permetta di progredire, un quadro libero ed elastico, realista e costruttivo, restando comunque critico e non banalizzando le difficoltà. A seconda del quadro che ci daremo potremo trovare delle risposte adeguate e dinamiche. Oppure smarrirci in questa realtà nella quale cadremo impotenti.
Ecco qualche postulato che può aiutarci a riflettere
In primo luogo bisogna ammettere che le migrazioni sono sempre esistite e sempre esisteranno.
Da qualche decennio si sono certamente considerevolmente sviluppate e diversificate. Le migrazioni cambiano volto, senso, luoghi di partenza e arrivo, ma non cessano di crescere: da quelle tradizionali Sud-Nord, a quelle recenti Est-Ovest, dai divari economici a quelli politici, religiosi, etnici. Altrettanti squilibri che si aggiungono gli uni agli altri.
E’ importante considerare questi fenomeni come un dato sociologico permanente e non più come una sorpresa.
Non si deve più sognare una società omogenea che riceve un numero limitato di migranti. Vivremo piuttosto costantemente in una società multiculturale, meticciata in mutazione perpetua.
Le strutture di accoglienza dell’infanzia e della scuola saranno, e già lo sono, il riflesso di questa diversità e di questo movimento perpetuo. Pure qua non si possono più sognare dei gruppi o delle classi «mitiche» che accolgono qualche immigrato o rifugiato, di passaggio per qualche anno. Bisogna accettare l’eterogeneità: molte nazionalità, molte lingue e culture, acquisizioni e percorsi biografici molto differenti.
In secondo luogo bisogna considerare che i movimenti migratori fanno coesistere nel medesimo spazio sociale modi di vita disparati. Come si ammette l’esistenza di più culture mi sembra pure importante ammettere che:
– ognuna ha la sua dignità, la sua forza e la sua ragione d’esistere ovunque nel mondo,
– non esiste un rapporto gerarchico fra di esse,
– rispetto una situazione data, l’individuo risponde, agisce, vive, interpreta differentemente secondo il senso che lui da all’avvenimento. E ciò coerentemente con quanto lui stesso é e con quanto la sua comunità é,
– appartenere a una comunità rappresenta pure la forza interiore dell’individuo.
D’altra parte capire il senso di un comportamento non significa giustificarlo, ne accettarlo in quanto tale. Significa ammettere che ha un senso, che ha un valore e che designa la manifestazione di un legame fra individuo e comunità. Si tratta allora di confrontarsi, di scambiare e trovare un senso comune. O ammettere che non esiste la possibilità di un compromesso su tale soggetto.
Mi pare poi pure importante riflettere sull’identità personale del soggetto. Qui come altrove é il risultato di un processo multi fattoriale. L’origine nazionale o culturale é certamente importante ma non unica.
Un ragazzo turco é via via un adolescente, primogenito o cadetto, musulmano più o meno praticante, sportivo, artista, proviene dalla campagna o dalla città, é più o meno integrato nella società d’accoglienza, vive solo o partecipa a un gruppo di pari.
Non utilizziamo allora la cultura come un alibi o come una fonte di spiegazione unilaterale.
In terzo luogo bisogna considerare che l’individuo, l’allievo, la famiglia o un gruppo sociale emigrano e arrivano con le loro personalità e risorse. Hanno dei saperi, dei saper-fare, hanno cumulato delle competenze per rispondere alle necessità della vita, hanno imparato una lingua, la possibilità di comunicare, delle attitudini relazionali, hanno pure delle responsabilità rispetto gli altri. Alcune di queste competenze possono essersi assopite o bloccate, al momento della partenza dal proprio paese o all’arrivo. Ma esse sono pur sempre presenti e diventare un trampolino per dei nuovi apprendimenti e per l’integrazione nella società d’accoglienza.
Infine si deve ammettere che la migrazione non é un problema in sé. E’ un momento della vita che può essere problematico.
Emigrare significa attraversare delle frontiere. In primo luogo pensiamo allora a quelle geografiche, con tutto quello che implicano come difficoltà giuridiche. Ma questa attraversata é pure linguistica, culturale, professionale, comportamentale. E’ un periodo di cambiamenti, talvolta di destrutturazioni o fratture con i modelli precedenti; seguita da una ricerca di ricostruzione tanto personale quanto familiare e culturale.
E’ possibile che durante questo periodo insorgano delle difficoltà d’adattamento. Come é possibile che i migranti – ed é il caso per la maggioranza – trovino le risorse per riformulare il loro rapporto alla vita nella società d’arrivo. Per questo la migrazione può essere un momento problematico, difficile e doloroso ma non forzatamente un problema.
Non si tratta di negare la realtà e le difficoltà dei processi migratori e d’integrazione, ma di sentirsi liberi di pensare e d’agire, liberi d’inventare delle soluzioni utilizzando al meglio le risorse di ognuno: individui, famiglie, comunità o istituzioni.
Ma allora quale l’entità sociale e antropologica dei sogni e dei progetti:
1. che ancora e testardamente perseguono disegni di omogeneità e di uniformità (dove si confonde questa con l’uguaglianza)?
2. se le “affiliazioni identitarie” vengono considerate definitive e incollate sui soggetti al fine di giustificarne e reificarne per la vita la diversità?
3. che rifiutano, denegano, rimuovono le competenze dei migranti?
4. che vogliono impedire l’attraversamento delle frontiere – non tanto quelle geografiche – ma quelle culturali, linguistiche, professionali, identitarie?
Vi invito pertanto a lasciar «migrare» il vostro pensiero, passare da una visione egocentrica (la nostra verità) a una visione etnocentrica (che utilizza tutti i contributi), al fine di rilevare le importanti sfide di una società multiculturale.
Arrivo adesso ad esprimere qualche riflessione sulle traiettorie dei ragazzi e delle loro famiglie con uno statuto precario. Mi riferirò principalmente alla situazione delle famiglie che hanno vissuto delle separazioni. Famiglie con i genitori stagionali, o oggetto dei numerosi altri statuti precari (rifugiati, candidati all’asilo, permessi vari provvisori …).
Lo statuto dello stagionale e le sue conseguenze principali
Lo statuto dello stagionale, oggi come ieri, instaura una separazione forzata tra i due genitori e/o tra i genitori e i propri figli. Questo strappo, che si prolunga per quattro anni al minimo (secondo l’esperienza si prolunga facilmente anche sino ai 6-7 anni), é sinonimo di abbandono, di rottura dei legami.
Mette fra parentesi la vita della coppia (tra marito e moglie), la vita della famiglia tra genitori e figli ed é, principalmente, difficilmente comprensibile dai bambini. Sul binario della stazione, in Portogallo, o alla stazione dei bus, in Kosovo, per i figli, con la partenza del padre (e talvolta anche della madre) se ne va un pezzo della loro vita.
Durante lunghi mesi, il padre non é più che una immagine. Una ammirazione in attesa del ritorno o di una migliore vita.
Il tutto sopra un fondo di rancore e tristezza.
E’ questa la situazione nella quale la famiglia si costruisce un po’ per volta, dove si strutturano e s’installano i ruoli, le relazioni reciproche e dove vanno formandosi le personalità.
Quale l’identificazione con un padre assente? Come non prestar rancore e accettare la sua assenza dai giochi, dalla passeggiate, dagli aiuti e dagli incoraggiamenti, sostituiti da un ipotetico futuro benessere? Come minimo ciò suscita una ambivalenza di sentimenti, dove ammirazione e delusione s’intrecciano.
E la madre, investita improvvisamente di tutte le responsabilità, come le assumerà? Malgrado ne abbia la volontà come potrà essere contemporaneamente all’ascolto dei figli e far prova d’autorità quotidiana, senza mai condividere con il marito?
Tra i vari compiti lo Stato si prefigge di proteggere la Famiglia. Ma allora quale protezione della famiglia in queste separazioni giuridiche? Quale il disegno che viene a crearsi a livello sociale?
Frequentemente la moglie raggiunge il marito. I figli, a questo momento, sono presi a carico dalla «famiglia allargata».
Questa situazione é sovente adeguata e ben vissuta, ma costringe il bambino a navigare tra differenti parti della famiglia (i nonni, gli zii e le zie, gli amici). Questa situazione che potremmo definire in base alla «mancanza di riferimenti stabili» é comunque il pane quotidiano per i figli degli stagionali. Devono adattarsi a diverse persone, a diversi modi di funzionamento, talvolta contraddittori. Dovranno sviluppare una enorme permanente capacità di adattamento.
Per alcuni di loro, sicuramente la maggioranza, tutto ciò é superato fortunatamente abbastanza bene. Ma questo percorso lascia delle tracce, più o meno profonde. Talvolta ne risultano bambini insicuri, con poca fiducia, poco attivi, che solo raramente osano affrontare la realtà e lanciarsi in nuove attività. Ciò si manifesta con delle difficoltà relazionali e comunicative (a cosa serve investirsi in una relazione se questa non sarà che provvisoria), con delle difficoltà espressive (con quale interlocutore condividere i propri sentimenti), con delle difficoltà strumentali (con un linguaggio poco strutturato perché poco o male stimolato) o ancora con una cattiva salute (il corpo s’incarica di esprimere quanto le parole non possono dire).
Quale “l’utilità” e la strumentalità sociale (si fa per dire) di questa «mancanza di riferimenti stabili»? A cosa serve, se a qualcosa serve?
Il ricongiungimento famigliare: speranza e tristezza, scommesse della vita
La posta che mette in gioco il ricongiungimento familiare (il momento legale quando il padre ha il diritto di farsi raggiungere da tuta la sua famiglia) – la posta in gioco per gli uni e gli altri – e grossa perché infine i ruoli permutano:
in un primo tempo, erano i genitori naturali (padre o madre o ambedue) che partivano e «abbandonavano» il figlio,
in seguito é lui a lasciare le persone che lo avevano accolto e con la quali aveva costruito dei legami affettivi. Coloro che quotidianamente e talvolta con difficoltà avevano condiviso le gioie e le amarezze, con coloro che aveva imparato a parlare, camminare, vivere.
Chi sono i veri genitori? Molti bambini che conosciamo faticano a dare una risposta, rifiutano pure di rispondere, al fine di proteggersi da una sofferenza troppo grande o da un senso di colpa.
Sopra questo doppio abbandono (prima abbandonati e poi abbandonanti) talvolta si fondano le nuove relazioni nel nucleo familiare ricomposto.
Il ricongiungimento familiare esige da tutti i membri della famiglia dei nuovi sforzi di adattamento. Mi sembra importante cogliere l’importanza di questo momento: momento di gioia, realizzazione di un progetto per il quale tutti hanno acconsentito pesanti sacrifici, ma pure momento dove l’insieme dei familiari deve ri-conoscersi una seconda volta, accettarsi. E ciò non sul piano immaginario (nelle speranze e nel sogno) quanto nella realtà quotidiana.
I ruoli … di nuovo ridistribuiti
Per il padre, sinora essenzialmente lavoratore, si tratta di riprendere la vita di copia, la vita familiare, la suddivisione delle responsabilità, l’educazione dei figli, sovente anche senza alcuna esperienza precedente, deve pure imparare a suddividere il suo spazio e il suo tempo.
Se talvolta la realtà é conforme alle speranze (il progetto migratore riesce o perlomeno é fonte di soddisfazione per tutti) ci sono molti esempi dove la realtà della famiglia indebolirà, oscurerà e rimodellerà le immagini e le speranze costruite duranti gli anni di separazione. I bambini si troveranno in un realtà che hanno sovente immaginato o mistificato. Dovranno dunque assumere il divario tra sogno (un padre che riesce e prepara un avvenire radioso per tutta la famiglia – immagine veicolata dagli aspetti materiali della riuscita quali la bella macchina, i regali natalizi, i soldi per la casa al paese) e la realtà quotidiana, fatta d’un pesante lavoro, d’un salario appena sufficiente (da dove nasce la necessità di un secondo lavoro serale), d’un piccolo appartamento e infine da una situazione sociale e giuridica ancora precaria.
Questo significa destreggiarsi tra il padre immaginato e il padre reale, tra sogno e realtà, o ancora tornare dall’uno all’altra.
Come riconoscere confidenza e autorità a questo padre (o questo marito) che sovente ha riuscito solo parzialmente?
Come accettare questo divario?
Alcuni ci riusciranno, per altri resterà un sentimento di delusione rispetto il loro padre, una ferita difficilmente esprimibile con le parole.
E come potrà impegnarsi nell’educazione dei propri figli, far prova d’autorità, se essi non lo riconoscono o appena?
Vivere la clandestinità
Alcune famiglie non hanno vissuto il cammino delle separazioni. Ciò non di meno hanno vissuto un cammino altrettanto difficile, altrettanto pericoloso. Per ragioni di vario tipo hanno optato per il ricongiungimento illegale della famiglia, quello della vita clandestina per una parte di loro.
Una volta ancora non si tratta di dare uno sguardo commiserevole su queste situazioni.
Da una parte il vivere congiunti é un atout per tutti i membri della famiglia; pure nelle difficoltà la famiglia resta una risorsa importante. D’altra parte le famiglie investono questo progetto: del lavoro per i genitori, dei saper fare e dei contatti nelle loro comunità che gli permettono di sbrogliarsi nella realtà quotidiana, delle possibilità si scolarizzazione e formazione per i propri figli, … quanto serve per sviluppare una speranza in un migliore avvenire.
Ma, come per le situazioni dei genitori separati, c’é un prezzo da pagare, principalmente per i ragazzi.
Una clandestinità esistenziale … prima di tutto un ragazzo senza statuto legale é un ragazzo che non ha il diritto di esistere, come di vivere liberamente poiché può essere scoperto. Per esempio potrebbe derivarne una denuncia e precipitare l’insieme della vita famigliare con una misura di espulsione.
A casa sua come altrove deve poi contenersi nell’espressione dei suoi sentimenti (quali ridere, urlare, piangere, cantare).
A casa sua come altrove deve fare attenzione a chi incontra: tessere delle relazioni con i pari, avere degli amici, invitarli a casa, partecipare a delle feste di compleanno, avere una vita sociale, partecipare alla vita di gruppo, integrarsi a una squadra di calcio o di un gruppo di danza, tutto ciò può essere a rischio.
Come immaginare un ragazzo che non commette alcuna sciocchezza, che non osa sfidare le proibizioni parentali o sociali, solo per rendersi interessante o fare delle esperienze, oppure come immaginare una ragazzo che non litiga e si azzuffa con un compagno per difendersi, per imporsi o farsi rispettare?
Pensiamo per un istante al bambino che eravamo …
In ogni caso un bambino senza statuto legale resta un bambino con i suoi bisogni:
– essere guidato, stimolato, protetto dai suoi genitori e dai suoi prossimi
– in un clima stabile e rassicurante
– e beneficiare di esperienze socializzanti e comunitarie, complementari alla vita familiare.
Lo sviluppo non é descritto dagli specialisti come integrazione e articolazione di questi apporti complementari, familiari e sociali? Come uscire allora da quelle proibizioni per aprirsi al mondo, per accettare di ricevere, per non avere timori? Come aprire alle relazioni se tutto nel quotidiano sa di pericolo? Come sognare il futuro, la vita d’adulto quando il presente ostacola la sua vita? Come concepire il proprio posto nella società che gli impedisce l’attuale esistenza? Come ricomporre le frontiere tra il bene e il male, tra fiducia e diffidenza, tra fuga e relazione, tra curiosità e passività, tra la famiglia che lo protegge ma che gli impedisce di vivere il mondo esterno?
La chiusura in un mondo immaginario, dove tutto é possibile, e la fuga dalla vita reale, dove ben poche cose sono permesse, sono i rischi sempre presenti.
E’ questo il traguardo perseguito?
La scolarizzazione
Al momento dei primi approcci alla vita sociale esplodono tutte queste questioni (durante la scolarizzazione o nelle strutture d’accoglienza della prima infanzia). Le conseguenze sono maggiormente visibili.
Trovare il proprio posto in un gruppo, iniziare una relazione, viverla, impegnarsi e trovare piaceri nel lavoro, nell’apprendimento, comunicare, esprimersi parlare agli altri, ascoltarli, ecco la vera posta in gioco e la sfida per il bambino.
Tra i comportamenti più frequenti troviamo le difficoltà d’investimento, la mancanza di motivazione e di piacere, la passività oppure anche l’aggressività verso i compagni.
«Sono certa che Maria é intelligente, ma sembra terrorizzata ogni volta che mi avvicino».
«Inès piange tutto il tempo, non sopporta che qualcuno alzi la voce nel gruppo».
«Rodolfo non s’attacca a nulla, si interessa di nulla, non é veramente un allievo. Quanto a Hassan la situazione diventa impossibile, ha relazioni solo aggressive con gli altri, alle volte mi fa paura».
«Josè disegna case con le sbarre, oppure delle grandi televisioni».
Ecco qualche segnalazione di docenti ed educatori; le attitudini descritte hanno ognuna un senso preciso. Segni manifesti della paura che rimpiazza la fiducia, della fuga che sostituisce la presenza. Alcuni ragazzi non possono stabilire delle relazioni, pertanto indispensabili a una buona integrazione nella vita quotidiana. Ieri frutti proibiti, pericolosi, oggi fonte di riuscita. Come possono cambiare e adattarsi a questo nuovo messaggio? Il contesto scolastico non é sufficiente, le proibizioni iscritte nella pelle e nello spirito del ragazzo non scompariranno in un giorno. Tempo pazienza, comprensione, tolleranza, talvolta un aiuto terapeutico saranno necessari al fine che le paure scompaiano.
Il diritto alla scuola: una speranza, una apertura
Nelle riflessioni precedente abbiamo considerato principalmente di problemi e difficoltà. Una parte di esse sono comuni a tutti, altre a tutti i figli di migranti, altre ancora più specificatamente ai ragazzi che hanno vissuto situazioni di clandestinità.
Da qualche anno in Svizzera il principio del diritto alla scolarizzazione é stato ammesso per tutti, indipendentemente dallo statuto giuridico del ragazzo (con variazioni cantonali).
Non si tratta di vantare l’utilità della scuola come luogo di rimediazione rispetto le difficoltà dei bambini e degli adolescenti. Essa ha permesso, semplicemente, di passare dalla non-vita della clandestinità alla vita quotidiana, di diventare qualcuno, con uno statuto sociale riconosciuto.
Questo é essenziale, ma mi sembra importante affermare che la scolarizzazione ha permesso di andare oltre l’offerta «abituale» della scuola.
Essa ha avuto in primo luogo un effetto preventivo per i raggruppamenti familiari, più rapidi, talvolta immediati e vissuti apertamente. Ha pure permesso a numerose famiglie di vivere normalmente la società, di ritrovare fiducia in sé, di osare sviluppare dei progetti per i loro figli e sbarazzarsi di un profondo senso di colpa nei loro confronti. Ha permesso loro di sentirsi parte di una comunità, di vivere sentimenti di appartenenza e partecipazione, non più d’esclusione.
E come per ogni genitore la scolarizzazione e la formazione diventano uno scopo credibile e importante, non più un pericolo.
Sono questi elementi poco quantificabili e poco visibili ma decisivi nella costruzione della immagine e della fiducia di sé. Non tanto e non solo per digerire il passato ma principalmente per sviluppare nuovi progetti.
Eppure molti sono ancora coloro che sognano scuole separate. Quale ne é allora il disegno sociale?
E prima della scuola?
Sarà banale dirlo, ma è importante sottolineare che ogni periodo, ma particolarmente quello della prima infanzia, é fondamentale nello sviluppo del bambino e del ragazzo. Non condivido l’idea che «tutto si determina prima dei sei anni», ma le esperienze vissute in questo periodo sono molto importanti,
In particolare modo in questo periodo ha inizio lo sviluppo percettivo e quello cognitivo, si mettono in gioco le strutture intellettuali, si sviluppano strumenti come la motilità e il linguaggio.
E queste evoluzioni non possono farsi che in situazione di stimolo, di scambi continui, tra il bimbo e la sua famiglia, tra il bimbo e suoi compagni e il suo ambiente circostante. Il gioco simbolico, il gioco in gruppo sono fonte di apprendimento e acquisizioni cognitive.
Il tutto in un clima di stabilità, continuità, rassicurante. Un contenente capace di accogliere un contenuto. A queste condizioni il bambino si sviluppa, si forma una personalità, rinforza la propria identità e si lancia nelle relazioni sociali.
L’abbiamo appena visto, queste sono tutte condizioni difficilmente realizzabili nelle famiglie con bambini illegali. Situazioni caratterizzate dalle proibizioni e le carenze di stimolo. Ecco perché le istituzioni della prima infanzia assumono una responsabilità crescente, in uno scopo compensatorio e preventivo.
Qualche idea conduttrice:
– mettere il bambino al centro delle nostre preoccupazioni e dargli quello spazio di socializzazione. E’ necessario che possa integrare al più presto le strutture della prima infanzia, non come alternativa alla famiglia, ma come una scelta e un diritto,
– nel contesto delle attività abituali bisogna prevedere degli spazi particolari nella lingua madre del bambino. Un cartellone, una canzone, una ricetta sono apporti minimi possibili e fondamentali a suoi apprendimenti e alla sua apertura sociale. La contribuzione di un membro della comunità può poi aiutare questi bambini in situazione d’instabilità personale e culturale,
delle attività che danno spazio alle appartenenze culturali favoriscono i contatti con le famiglie. E importante: creare confidenza e rispetto che sappiano sormontare il senso di colpa e la sofferenza vissuta del passato di proibizioni.
Sollecitare i genitori significa dar loro confidenza, riconoscerli come interlocutori completi, integri. Domandare di partecipare a delle attività permette loro di dimostrare le loro competenze, crea occasioni di scambio, d’ascolto. Infine favorisce un sentimento di sé positivo oltre che concretizzare la complementarietà tra famiglia e struttura dell’infanzia.
Il bambino potrà così navigare tra le due – non sarà facile – liberato dal dovere di fedeltà all’una o all’altra. E potrà cumularne gli apporti rispettivi.
L’incontro tra famiglia migrante e strutture della prima infanzia: un incontro tra due «altri»
Generalmente si ammette che una buona relazione tra famiglia e istituzioni é un atout importante nello sviluppo del bambino, bisogna allora ancora chiarificarne i contorni, precisare su cosa e come possano incontrarsi e definire un terreno concreto di collaborazione.
Dobbiamo ammettere che ogni contatto, sotto qualsiasi forma, mette sempre a specchio due entità differenti (che sia il rientro scolastico, un campo sportivo, un incontro tra genitori ed educatori …).
La famiglia é il luogo privilegiato di acculturazione. E’ nel suo seno che si costruiscono, almeno in un primo momento, i comportamenti e i valori , gli apprendimenti della vita sociale, il modo di relazionarsi agli altri, in una parola tutta la «filosofia» della vita. E’ il frutto di un lungo cammino, una costruzione che comincia alla nascita (come si accoglie il figlio nascituro?), che continua nell’educazione, nell’attribuzione di ruoli e posti per ognuno (dei genitori, dei figli, della famiglia allargata), nella trasmissione dei valori e dei comportamenti della comunità. L’insieme di tutti questi valori costituisce una sua «coerenza», una unità, come si chiama sovente la «cultura».
E’ pure nella famiglia che si vive la prova della migrazione, che si negozia una mediazione tra famiglia, famiglia allargata e la comunità originaria, e la vita sociale della società d’accoglienza. Vi nascono nuovi progetti, sovente differenti e contraddittori (per alcuni rientrare in patria, per altri restare …). La famiglia é così unità, protezione, appartenenza, ancorata nei valori della comunità d’origine, in contatto, proiettata e sollecitata dalla realtà di tutti i giorni.
Uno dei momenti di questo contatto avviene con le istituzioni della prima infanzia e la scuola, con le loro regole, valori, competenze, ma pure attese ed esigenze. La «filosofia» dell’istituzione é pure frutto di un lungo cammino: fattosi attraverso la definizione di obiettivi e metodi di lavoro e la definizione del contesto dove adottarli: i programmi, la lingua ufficiale d’apprendimento, le esigenze di disciplina e autorità, le regole sociali della vita collettiva, gli orari e ritmi quotidiani, settimanali, annuali, la scelta delle attività, la maniera di trasmissione delle informazioni e di stabilire le relazioni con gli interlocutori (informazioni scritte, nella lingua «ufficiale», con sedute formali). Tutto ciò ha pure una sua «coerenza»; una «cultura» della scuola o dell’istituzione, applicata da attori quali gli insegnanti o gli educatori.
L’incontro: confronto o complementarità
Queste due «coerenze» possiedono ognuna una proprio legittimità e un proprio valore. L’una e l’altra perseguono scopi precisi. Se l’obiettivo finale può essere sovente lo stesso (lo sviluppo del bambino, la sua socializzazione, la sua autonomia, la sua entrata nel mondo sociale), l’educazione e l’istruzione possono ben prendere cammini differenti.
La famiglia desidererà mantenere un occhio attento, essendo la posta in gioco la trasmissione dei suoi valori culturali. Al giardino o alla scuola dell’infanzia si cercheranno i percorsi della socializzazione. Alla scuola spetteranno l’istruzione, la trasmissione dei saperi, glia apprendimenti scolastici.
Durante la prima scolarizzazione queste entità si incontreranno. Questo incontro potrà essere naturale, sereno e produttivo. Oppure conflittuale e bloccante.
La posta in gioco per ogni operatore sociale, e lo psicologo come io sono, é di far tutto il possibile per accumulare le competenze e le risorse di ognuno, renderli complementari, cercando di evitare la competizione e la rivalità.
– Riconoscere l’altro come interlocutore di valore sia nel suo percorso che nella sua identità,
– acquisire sensibilità e interessi per l’altro,
– informare e informarsi sugli ambiti che riguardano la vita del bambino, della sua famiglia e della sua comunità,
– esplicitare le attese e le esigenze rispettive, chiarificare ciò che a noi sembra evidente,
– riflettere a come comunicare (informazioni scritte o orali, individuali o collettive), e dove farlo (a casa, a scuola, all’asilo),
– riconoscere l’altro come competente, validare le sue risorse, dargli la possibilità di dimostrarlo,
– fissare obiettivi comuni a partire dalle risorse e non dalle lacune, mostrare l’interesse per una azione comune e complementaria,
– prendere tempo, una vera collaborazione non é solo il frutto della buona volontà, ma frutto dell’ascolto, della mediazione, della reciproca accettazione,ecco alcuni luoghi dove l’incontro può (o non può) realizzarsi.
La separazione sicuramente sognata, desiderata, perseguita da novelli “revisionisti pedagoghi” che sognano classi separate per i bimbi alloglotti può forse ancora non essere considerata parte di un disegno, forse non esplicito, forse non ancora manifesto in tutti i suoi perversi effetti, tranne che per le sue frange estreme?
Collaborazione e complementarità sono condizioni realizzate solamente attraverso questo reciproco riconoscersi. Tra due sistemi di valori e di comportamenti solo l’elasticità e il riconoscimento positivo permettono cambiamenti e dinamismo: la rigidità favorisce solamente il ripiegamento su di sé.
Quale rapporto di subalternità si persegue se non c’é questa collaborazione e complementarietà tra i due sistemi (di valori e comportamenti )?
La relazione tra famiglie e istituzioni può diventare un progetto comune: conoscersi, valorizzarsi, rispettarsi, creare un ponte che permetta i passaggi dall’una all’altra …
Al di là delle quotidiane difficoltà, é una sfida della società: non si tratta di aiutare all’integrazione, ne d’avere una attitudine umana. Si tratta di favorire lo sviluppo di una società dove ognuno possa trovare il suo posto e il migliore di sé stesso.
Bibliografia
Riviste
Migrants-formation, edita dal «Centre national de documentation pédagogique», Paris, in particolare i numeri 75 (1988), 95 (1993), 96-97-99 (1994) et102 (1995).
VEI Centre de ressources Ville-Ecole-Intégration, Centre National Documentation Pédagogique,
B 750 60732 St Geneviève Cedex, France
Deux articles de M. A. Ciola
Entretiens avec une famille migrante: dialogue entre deux subjectivités, Petite Enfance, Pro Juventute, Lausanne
Comment être bien assis entre deux chaises, ou la condition du migrant, Interdialogos, 2, Berne.
Sui bambini senza statuto legale
Commission nationale de l’UNESCO et Institut Romand de documentation pédagogique, 1991
La scolarisation des enfants clandestins, Godenzi Beata, Université de Lausanne, Sciences sociales, 1989-90
Des enfants illégaux, des enfants tolérés: les enfants sans statut légal à Genève, Institut d’Etudes Sociales 1984 et 1987
Enfant cherche Ecole, Christiane Perregaux et Florio Togni, éditions Zoé,1989
Les enfants de l’ombre, Brigitte Sancho, La Passerelle CSP, Lausanne
Cachés et isolés, UNICEF, Pro Juventute, Pro Familia et SPE, Zurich 1991.