Venerdì 20 febbraio 2010, Eric Bruggmann

Dal punto di vista della sociologia critica [1], la violenza simbolica è costitutiva del legame sociale e delle relazioni di dominazione che vi sono inerenti. Ogni rapporto di dominio costituisce una violenza simbolica, nella misura in cui riesce a imporsi come legittimo, mentre nasconde l’efficacia e la realtà delle relazioni di potere che ne sono alla base. Per realizzarsi, questa violenza mobilita l’adesione implicita dei “dominati”, cosa resa possibile dal fatto che loro stessi hanno interiorizzato le categorie concettuali dei “dominatori”.
Ma cosa c’entra la pedagogia in tutto questo? In verità la pedagogia è fortemente implicata in questo fenomeno, e questo per due motivi.

In primo luogo, quale uno dei settori del mondo sociale, tra altri, la pedagogia é attraversata da questa forma di violenza “dolce”. Poi, la pedagogia è implicata ancor più radicalmente dalla violenza simbolica nella misura in cui ogni atto pedagogico implica l’esercizio del potere, tendente a fare dell’arbitrario una necessità, e della necessità una virtù.

Questo groviglio di pedagogia e violenza simbolica non deve indurci a concludere che quest’ultima sia prerogativa esclusiva della famiglia e della scuola. No, prospera e brilla con costanza e forza attraverso questi grandi corpi di legittimazione che sono i media contemporanei (TV, radio, giornali, internet).

Inoltre, non si deve concludere che la violenza simbolica sposi necessariamente forme di brutalità discorsiva o di verbale brillantezza.
Al contrario! Si esercita maggiormente, e in modo più efficace, attraverso il poco che il tanto: la sua disseminazione nel sociale passa soprattutto tramite strategie d’eufemismo, in cui la realtà è addolcita da una semantica lenificante.

Illustriamolo con alcuni esempi tratti dai ripetuti discorsi socio-mediatici:
– I lavoratori non hanno più bisogno di essere ritagliati e impiegati a capriccio: basta che siano “flessibili”.
– Non si chiede più a loro di vendersi, ma che siano “occupabili”.
– Parlando di città, non è necessario evocare la precarietà di alcuni quartieri e delle persone che ci vivono, semplicemente le si designa come “aree sensibili”.
– Nessuno oggi viene più espulso dai nostri confini, sono prese solo delle “misure di allontanamento”.
– La criminalità dei colletti bianchi è obsoleta, assistiamo ad una più austera “sfocatura delle norme”.
– La truffa essendo una competenza esercitata al più alto livello di molte grandi imprese, diventa sempre più difficile sapere se il termine “business” si riferisce agli scandali finanziari o alle attività economiche in quanto tali.
– Non s’invade più un paese: si applica un “dovere di intervento (umanitario)” nei suoi confronti.
– La conseguente guerra produrrà una scia di distruzione e di morte, che il buon gusto suggerirà nominare “danni collaterali”. 
– Non c’è più bisogno di parlare del regolare controllo di una società da parte dei suoi azionisti, è sufficiente che un “buon governo” venga esercitato.
– Per finire con la prevenzione e rinforzare la repressione, conviene appellarsi alla “politica di sicurezza”.
– Per sostenere il mercato scolastico e le sue disuguaglianze, è necessario eruttare: “la libertà di scelta per la scuola del proprio figlio! (garantito certamente dalla Costituzione …).
– Eccetera …

[1] Il concetto di “violenza simbolica” è stato forgiato e sviluppato dal sociologo francese Pierre Bourdieu (1930-2002), occupa un posto importante nell’insieme della sua opera.