settembre 2010, Giovanni Galli

A molti è noto il dibattito sui pericolosi ed involutivi effetti pedagogico-didattici degli standard in educazione.
La letteratura critica sugli “standard” prodotta da parecchio tempo nei paesi anglosassoni (soprattutto negli Stati Uniti), dimostra che l’utilizzo degli “standard di performance” produce un rischio enorme: il cosiddetto “learn to test”. Vale a dire che si “impara a riuscire le verifiche”: gli insegnanti modellano così i loro corsi in modo da assicurare la migliore riuscita ai test. Di conseguenza, le competenze definite all’origine dei piani di studio non sono realmente applicate dato che l’obiettivo da raggiungere è quello di raggiungere i migliori risultati “misurabili”.
Insomma non si certifica quanto si insegna ma si insegna quanto si certifica.

Ma se il pericolo di appiattimento degli insegnamenti sugli standard è così pericoloso e forte, quale la ragione della loro applicazione sistematica?
La verità è che, in qualche maniera, la definizione degli standard ha a che fare con le leggi del mercato, e non con la pedagogia. Vale a dire con l’instaurarsi di un mercato della formazione. In qualche maniera la definizione degli standard ha a che fare con l’aziendalizzazione della scuola.
In effetti, uno degli obiettivi nella definizione degli standard in educazione è quello di permettere il confronto fra modelli educativi.

Domanda uno: ma che bisogno c’è di confrontare i modelli educativi se vengono standardizzati i programmi e gli obiettivi? 
Risposta: si confrontano i modelli educativi standardizzati per metterli meglio in competizione fra loro.
La competizione fra sistemi educativi permetterà di farne una graduatoria. Graduatoria sicuramente illuminante nell’ottica della scelta dell’istituto.
E’ questo un parto del pensiero neo-liberista, sviluppato con i tagli alla formazione pubblica.
La questione degli standard non è in prim’ordine una questione pedagogica: è una questione economica, che, solo in second’ordine, i ricercatori tentano di rendere plausibile.

Domanda due: la certificazione dell’informale, certificazione organizzata tramite lo strumento Portfolio, sembra introdurre un movimento contraddittorio alla standardizzazione.
In effetti riconosce la varietà e la ricchezza dell’informale, la varietà e la ricchezza degli apprendimenti che avvengono fuori dalla scuola. Vuole appunto certificare questa ricchezza che la scuola non può oggi offrire da sola.
Allora a che scopo “stringere”, limitare, omologare, standardizzare la formazione e la certificazione da un lato, per allargarla, arricchirla, dall’altro?
Risposta: economicamente parlando, il riconoscimento degli apprendimenti informali e la loro certificazione rende interessante l’offerta e il mercato dei corsi ed istituti privati.
Li rende competitivi rispetto al servizio pubblico derubato, derubato e sdandardizzato nelle sue risorse da parte delle politiche neo-liberiste.

P.S. Un ultimo effetto, più nascosto, ma non per questo meno grave è dell’ordine sociale e politico.
Per il pensiero democratico e progressista l’educazione dei cittadini deve essere un compito collettivo e dello Stato. 
In questo sistema l’educazione e l’istruzione diventano un fatto privato, di scelte individuali.