Sabato, 17 gennaio 2009, Eric Bruggmann
E’ necessario adottare una definizione della politica di formazione che sia radicale (che tocchi la radice di ciò che è da definire), e più trasversale possibile (generalizzabile). Siamo dunque giunti a definire la politica di formazione come un dispositivo dove si esercita un intervento sulla capacità di simbolizzazione degli individui.
Consideriamo la capacità di simbolizzazione, la capacità degli individui e dei gruppi sociali di darsi dei parametri di riferimento esistenziale (senso, valori ..).
Qualsiasi pratica di formazione, figuriamoci un sistema di istruzione e di istruzione formale in quanto tale, è spinto e guidato da una politica di formazione, implicita (come è spesso il caso) o meno.
La concezione tecnocratica (“l’ingegneria” della formazione e i suoi avatar), che sta vivendo un boom negli ultimi venti anni, tende a trascurare la dimensione politica, in nome di una visione strumentale e “scientifica”, dell’atto di formazione. Da questa prospettiva, la formazione è stata progettata principalmente come indottrinazione di saperi preformati, rispondente a dei “bisogni” (per quanto riguarda il mercato del lavoro, i bisogni definiti come tali dai datori di lavoro), e che si tratta imperativamente di garantirne la “soddisfazione”.
Tuttavia, ch’essa cerchi di nasconderla o meno, ogni pratica di formazione, come abbiamo detto, attua una politica. E qualsiasi politica formativa tende ad avere un impatto a livello collettivo, nella misura in cui sono le politiche di formazione che danno forma e sostengono il capitale culturale di una società.
NB: si intende per capitale culturale l’insieme di tutti i valori e le risorse collettive derivanti dall’ azione prodotta dalla società su se stessa per la propria trasformazione (*).
Tuttavia, i problemi della società, in particolare quelle relative alla formazione e all’educazione dei giovani, come confermato da diversi studi, sono direttamente incastonati nelle disuguaglianze sociali (in costante aumento soprattutto nelle grandi città, come tutti gli indicatori mostrano,).
Di conseguenza, un sistema scolastico degno di questo nome deve compiere la sua missione sotto la mozione di una politica di formazione che metta in opera tutti i mezzi per ridurre tali disparità, non una politica che le accentui di più. Ciò che implica allora anche che la vera sfida della formazione dei giovani sia meno la produzione di un individuo in grado di “vendere” le proprie competenze, quanto l’emancipazione di un attore del cambiamento, cittadino e critico.
(*) Il concetto di “capitale culturale” ha conosciuto, da Durkheim a Bourdieu, diversi significati. Quello che noi utilizziamo qua s’avvicina ai lavori sviluppati dalla sociologia dell’azione (A. Touraine): il capitale non è percepito come un oggetto di trasmissione, ma come risultate dell’azione di trasformare della società su se stessa.
(nota del traduttore: l’articolo si riferisce principalmente all’organizzazione scolastica in Belgio, ciò non di meno le sue note sono interessanti per la prospettiva e i problemi concreti che pone)