Educazione, istruzione, educazione, ecc.: nel mondo scolastico francofono, infuria il dibattito sul termine che converrebbe utilizzare. Il passaggio dall’espressione «Istruzione pubblica» a quella di «Educazione nazionale» é carica di significati ideologici e pedagogici.
Per i suoi sostenitori, la parola istruzione è storicamente legata alle ambizioni della scuola repubblicana di Jules Ferry: fornire a tutti i cittadini le conoscenze che permetteranno ad essi di avere un ruolo attivo in una società democratica. Gli stessi sostenitori del termine istruzione, nell’emergere del termine educazione, vedono uno scivolamento semantico caratteristico della recente tendenza dell’insegnamento verso obiettivi vaghi di socializzazione, integrazione culturale arbitraria, vedi di formattazione ideologica.
Essi vi percepiscono sia un affronto ai principi di laicità che di un impoverimento della conoscenza generale comune, che la scuola è responsabile di trasmettere.
I «moderni», che siano insegnanti o responsabili politici, spesso sostenitori del termine «educazione», al contrario dicono che i termini «istruzione» e «insegnamento» – con le forme storiche del progetto educativo che vi corrispondono ai loro occhi – pongono troppa enfasi sulla trasmissione di saperi e di saper-fare, a scapito della formazione della «persona», della sua emancipazione e della sua socializzazione.
Questa disputa sembra inutile, perché risulta in gran parte da un fraintendimento delle funzioni del sistema di istruzione in periodi diversi del capitalismo moderno. Dimostra anche una grande ingenuità per l’uso simbolico delle parole da chi sta al potere. Perché, se noi guardiamo un po’ più da vicino, si può dubitare che l’ambizione di Jules Ferry fosse veramente quella di istruire il popolo, come è dubbio che l’obiettivo dei ministri attuali sia quella, prima di tutto, di educare.
L’immagine che molti associano alla scuola repubblicana della fine del XIX secolo, in realtà, corrisponde alla visione difesa quasi un centinaio di anni prima, in un contesto totalmente diverso, da una borghesia ancora rivoluzionaria. Il suo portavoce più famoso fu Condorcet, nella suo Rapport et projet de décret sur l’organisation générale de l’Instruction publique: «offrire a tutti gli individui della specie umana i mezzi per soddisfare le loro esigenze, garantendo il loro benessere, di conoscere ed esercitare i loro diritti, di capire ed eseguire il loro doveri; garantire ad ognuno la facilità nel perfezionamento del proprio operato, di rendersi capace nelle sue funzioni sociali alle quali ha il diritto di essere chiamato, di sviluppare l’intera gamma di talenti che ha ricevuto dalla natura; e quindi da lì stabilire tra i cittadini un’uguaglianza di fatto, e rendere l’uguaglianza politica riconosciuta dalla legge. Tale deve essere il primo obiettivo dell’istruzione nazionale. (…) Questo per il potere pubblico é un dovere imposto dal comune interesse della società, per quello del genere umano intero». Questo discorso colorato di rivoluzionario romanticismo non illuderà a lungo. Appena il regime politico verrà messo in conformità con i requisiti del progresso economico, l’ideale di libertà potrà venire cristallizzato nella sua forma essenziale: la libertà di impresa, d’investimento, di commercio e di sfruttamento. Perché, già allora, è la concentrazione del capitale e degli uomini e la loro messa in opera al solo scopo della redditività che impone la sua legge. Bisogna produrre di più, sempre di più, con una costante ricerca d’economizzare sulle forze produttive: economia degli uomini, economia della loro intelligenza pure. Quando il miracolo della fabbrica, poi quello delle macchine e delle grandi imprese, con una trentina di ignoranti, permette di produrre il doppio di tessuti, di dadi o contenitori di vetro, di quanto non producevano una cinquantina di artigiani qualificati, allora la formazione professionale non ha più ragione di essere. A poco a poco avvizziscono le forme tradizionali di formazione, come imparare un mestiere da un maestro, o un maestro artigiano. Ma con la morte dell’apprendistato al tempo stesso della scomparsa della famiglia tradizionale rurale, sotto la pressione dell’urbanizzazione e di lavoro delle donne, sono anche i luoghi tradizionali di socializzazione che scompaiono, lasciando un vuoto in materia di istruzione morale della gioventù.
Dai primi decenni del XIX secolo, le classi dirigenti cominciano a preoccuparsi di questi semi di «disordine sociale», di questi «grappoli di teppisti», di queste «classi pericolose», che pur tanto hanno fatto per produrre. Dal momento che né la famiglia, né il lavoro in fattoria, o il laboratorio, non può più educare i figli del popolo, che vadano a socializzarsi a scuola. «Aprire una scuola, professa Hugo, è chiudere una prigione». Nella seconda metà del secolo, la missione di educazione assume un contenuto più marcato ideologicamente. La rapida industrializzazione ha dato forma e sostanza allo «spettro» che tormenta la vecchia Europa: una classe operaia ampia, disciplinata da parte dell’industria, organizzata sempre meglio, e che si dà una ideologia pericolosa per il potere: il socialismo.
Dopo aver sperimentato il collasso delle truppe francesi nel 1870 e aver partecipato al sanguinoso schiacciamento della Comune di Parigi , Jules Ferry fondò la scuola repubblicana, in vista, disse, di «mantenere un certa morale di Stato, alcune dottrine dello Stato che siano importanti per la sua conservazione». Allo stesso tempo, il Re dei Belgi, Leopold II, è a favore dell’istruzione obbligatoria in questi termini: «L’istruzione impartita a spese dello Stato mirerà, a tutti i livelli, ad ispirare alle giovani generazioni l’amore e il rispetto per i principi su cui si basano le nostre libere istituzioni».
Certamente, non si può socializzare e indottrinare senza pure istruire. La scuola elementare del popolo non può diffondere l’amore di patria e per le istituzioni senza insegnare a leggere e scrivere, senza insegnare l’insegnamento della storia e della geografia. Quanto all’altra scuola, quella dei ricchi, quella dei figli della borghesia, quella di Atene, Ginnasio, Collegio, e altri Licei, deve fornire agli studenti anche le conoscenze che permetteranno loro d’assumere i compiti di leadership che il destino sociale riserva a loro. Così la funzione primaria di istruzione ha finalmente voltato le spalle alla missione liberatrice della pubblica istruzione di Condorcet, per diventare conservatrice nel senso pieno del termine: assicurare la conservazione della società costituita tramite la formazione politica e morale della sua gioventù.
Ovvio apparato ideologico di Stato – e dichiarato come tale nel XIX° secolo – la scuola popolare, nel corso del secolo seguente, diventerà progressivamente uno strumento di formazione al servizio diretto dell’economia. Già prima della prima guerra mondiale, i progressi nella tecnologia industriale, la crescita delle amministrazioni pubbliche e lo sviluppo di impieghi commerciali fanno rinascere la domanda di mano d’opera maggiormente qualificata. Certo, per la maggior parte dei lavoratori, una socializzazione di base é sempre sufficiente, ma un numero crescente di essi deve acquisire delle competenze maggiori. Un ritorno alla formazione tradizionale non sarebbe bastata. Il sistema educativo allora si é aperto a delle sezioni «moderne», tecniche o professionali. E’ però stato subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, in un contesto di forte e duratura crescita economica, d’innovazioni tecnologiche a lungo termine pesanti – quali l’elettrificazione delle ferrovie, le infrastrutture portuali e aeroportuali, le autostrade, l’energia nucleare, la telefonia, la petrolchimica – che il ruolo economico della Scuola s’impone in primo piano. Il successo economico necessita d’innalzare il livello generale di formazione dei lavoratori. E bisogna fare in fretta.
In situazione d’emergenza, la scuola secondaria delle élites, l’istruzione in generale, apre rapidamente le sue porte ai bambini di estrazione popolare. La conseguente massificazione dell’istruzione secondaria assume così pure l’aspetto della democratizzazione degli studi.
Queste illusioni moriranno con la crisi economica degli anni ‘70 e, ancor più, con la consapevolezza nella metà degli anni ‘80, che questa crisi non era un brutto momento provvisorio, ma segnava un cambiamento profondo e duraturo nel contesto economico internazionale: esacerbazione e mondializzazione della competizione economica; imprevedibilità crescente dei cambiamenti tecnologici e industriali; dualità sociale rafforzata. I sistemi educativi s’impegnano allora in una riforma che dura da dieci a venti anni a seconda del paese, riforma che è ben lungi dall’essere completa. Si tratta, in sostanza, di ridurre le ambizioni della scolarità obbligatoria a proporzioni più modeste e, soprattutto, più adattata alle esigenze attuali del mercato di lavoro. La formazione generale, alla quale tutti oggi accedono sino ai 14-15 anni, è orientata ad abbandonare i suoi vecchi obiettivi enciclopedici – questo «bagaglio di conoscenze sclerotizzate», come si ama professare. La formazione deve ri-centrarsi sull’acquisizione di «competenze di base», di «competenze trasversali» e di «competenze (abilità) sociali», responsabili di fornire l’adattabilità e la flessibilità della forza lavoro – e dei consumatori – in un ambiente in continua mutazione.
Colui che oggi rimpiange la vecchia scuola repubblicana perché avrebbe istruito il popolo invece di pretendere di educarlo, e colui che per la stessa ragione afferma che si tratta precisamente di abbandonare questa scuola del passato, si sbagliano entrambi, pesantemente. Perché se Jules Ferry brandiva il verbo istruire, principalmente era per colorare di rivoluzionario, il suo vero e proprio progetto: educare i francesi al patriottismo e al rispetto per le istituzioni borghesi, stabilito dagli assassini della Comune e affidare agli ussari della Repubblica il compito di plasmare, nella coscienza migliore del mondo, la carne da cannone del 1914-1918.
E se la scuola capitalista moderna afferma al contrario che vuole educare, è che deve nascondere la sua principale missione: la formattazione dei lavoratori e dei consumatori, come reclama la concorrenza economica globale.
Ma pertanto, allo stesso tempo, entrambi hanno ragione. Perché è evidente, se pensiamo alla scuola come uno strumento di emancipazione collettiva, come un’arma che i cittadini possono utilizzare per capire e per cambiare il mondo, allora questa scuola dovrà contemporaneamente istruire ed educare. Jean Jaurès già scriveva all’inizio del secolo scorso: «Il est impossible d’éduquer pleinement le producteur si on ne lui donne pas l’idée des forces qui l’ont fait ce qu’il est déjà, c’est-à-dire capable d’aspirer et de monter plus haut. D’où la nécessité, dans l’éducation de l’ouvrier, dès l’école primaire comme dans la vie, d’une culture générale, d’un ensemble de connaissances qui dépassent non pas son ambition de producteur, mais sa spécialité de métier».
Riferimenti
Baudelot Chr. et Establet R., L’École capitaliste en France, Paris, Maspero, 1971 ;
Charlot B., L’École en mutation, Paris, Payot 1987 ;
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Grootaers D., Histoire de l’enseignement en Belgique, CRISP, 1998 ;
Hirtt N., L’École de l’inégalité, Bruxelles, Espace de libertés/Labor, 2004 ;
Lamarche Th., Capitalisme et éducation, Paris, Syllepse, 2006.