A cavallo degli anni ’60 e ’70 è nata l’idea di creare una «discriminazione positiva» in materia d’istruzione. Molti studi, fra questi quelli di Pierre Bourdieu, mettono in evidenza la stretta correlazione tra il rendimento degli studenti e l’origine socio-economica. Nel 1974, in un articolo sul quotidiano “Le Monde”, il segretario generale della CFDT, Edmond Maire sosteneva questo principio originariamente proposto da Bertrand Schwartz: se la scuola deve compensare gli effetti di una società disuguale, bisogna che essa stessa sia disuguale. Si deve pertanto accordare un trattamento scolastico preferenziale a categorie di popolazione svantaggiata o in difficoltà: compensare una discriminazione di fatto per il tramite di disuguaglianze nei mezzi.
La rivendicazione entra poi nel campo politico. Nel 1981, il ministro francese Alain Savary sarà il primo ad applicare questo principio di discriminazione positiva, con una direttiva volta a definire i criteri secondo i quali alcune strutture scolastiche saranno classificate quali “zona di educazione prioritaria” (ZEP), direttiva che pure definisce gli obblighi delle collettività locali nei loro confronti. Nel Belgio francofono ci vorrà un altro decennio per vedere la nascita di scuole “D +” (discriminazione positiva) che beneficiano di ulteriori risorse umane e finanziarie da parte della Comunità francese del Belgio.
Per quanto possa sembrare generosa nelle sue intenzioni, la politica di “discriminazione positiva”, non é immune alle critiche. Ancora una volta, il vero significato delle parole è molto lontano dal valore simbolico ad esse connesse.
In primo luogo, al principio delle ZEP e delle D+, é necessario innanzitutto applicare la critica generalmente valida contro l’idea di “compensare” le disuguaglianze – di reddito o di ricchezza – con una disparità di trattamento in termini di sicurezza sociale o di servizi pubblici.
È giusto prevedere assegni alle famiglie ricche? È giusto attribuire l’indennità di disoccupazione se il coniuge ha un lavoro stabile e pagato? Va bene accordare maggiori risorse finanziare per la gratuicità dell’insegnamento superiore se si considera che chi ne trae profitto sono per la maggior parte bambini provenienti da ambienti benestanti?
A seguire tale ragionamento, il pericolo é quello di smontare a poco a poco i principi di solidarietà che devono fondare la sicurezza sociale e il servizio pubblico. Le disuguaglianze di reddito o di capitale devono essere affrontate con delle politiche fiscali e salariali, non aprendo il vaso di Pandora della previdenza sociale o di servizio pubblico a varie velocità.
Un ragionamento analogo potrebbe essere applicato alla discriminazione positiva quale strumento per risolvere le disuguaglianze cosiddette di “capitale culturale”. La politica ZEP o D+, in nome delle pari opportunità, porta a rinunciare al principio che le scuole dovrebbero garantire il successo scolastico per tutti. L’ideologia della discriminazione positiva, infatti, implica che la responsabilità del fallimento o di abbandono scolastico dei bambini “svantaggiati” venga cercata in quegli stessi ambienti da cui provengono. I fondi supplementari sarebbe quindi destinati a “compensare” le “carenze” della famiglia. Ma questo modo di porre il problema degli insuccessi scolastici è fondamentalmente scorretto. Come indicato da Bernard Charlot, la vera domanda non è: “Perché i figli del popolo non riescono a scuola?” ma piuttosto “perché i ragazzi dei ricchi riescono?”. E di rispondere: perché trovano, al di fuori della scuola, i mezzi per compensare le carenze strutturali, la mancanza di controllo, il deficit di senso che affligge l’intero sistema scolastico. Quando il problema viene posto in questi termini, possiamo concludere che sia l’intero sistema – la sua struttura, la sua organizzazione, i suoi programmi, i suoi metodi, le sue risorse – che bisogna riformare e migliorare. Perché ci sono ancora troppi bambini d’ambiente popolare che soffrono e bocciano in scuole che non sono classificate ZEP o D +.
E perché ci sono anche troppi bambini provenienti da ambienti diversi, borghese o piccolo-borghese, che risentono delle attuali carenze e dell’investimento eccessivo che i loro genitori gli impongono in risposta a queste carenze.
Si può anche dubitare che le politiche di discriminazione affermativa, che si applicano solo alle scuole frequentate da un pubblico estremamente povero, siano effettivamente utili per queste scuole. Classificando uno stabilimento quale ZEP o D+, gli si fornisce certamente un aiuto materiale, ma lo si stigmatizza pure nella designazione di scuola “difficile”. Pertanto, i genitori ben informati, coloro che hanno la possibilità di scegliere un’altra scuola per il loro bambino, coloro che attribuiscono grande importanza a questa scelta – vale a dire, il più spesso i genitori agiati – avranno ancor più desiderio di sfuggire alle scuole ZEP o D+.
Tocchiamo qui la critica più fondamentale contro la discriminazione positiva. Pertanto essa si presenti a noi in nome delle pari opportunità, questa politica non attacca e persino contribuisce a rafforzare quanto, oggi, é uno dei principali fattori strutturali della disuguaglianza, nei sistemi di istruzione dei paesi a capitalismo avanzato: la segregazione sociale tra le scuole. Molti studi internazionali oggi lo dimostrano: in Francia e, cosa più importante, in Belgio, è essenzialmente il “livello medio” delle scuole frequentate, che determina il livello di apprendimento e delle competenze che possono sperare di raggiungere gli studenti. Ma la segregazione è enorme. Se si considera per esempio la valutazione in matematica all’età di 15 anni nei test PISA, si osserva che in Francia, la differenza media tra le scuole raggiunge il 70% dello scarto medio tra studenti. In Belgio si eleva al 81%. Tuttavia, se non ci fosse segregazione, se le strutture fossero in condizioni di parità, non dovrebbe esserci alcuna differenza tra le istituzioni. I tassi osservati mostrano che le differenze tra gli alunni sono legati principalmente alla “scelta” del luogo della scuola. Poiché tale scelta è di per sé fortemente legata all’origine sociale, la segregazione tra “buon” allievo e “meno buon” prende sempre invariabilmente la forma di una segregazione sociale.
La disuguaglianza è strettamente correlata alla libertà di scelta dei genitori. Si osserva d’altronde che nei paesi scandinavi, dove la libertà è più bassa – perché non c’é istruzione privata, perché non vi è alcuna selezione prima dei 16 anni, perché c’è una “carta scolastica” efficace e perché la bassa densità di popolazione interferisce con il “quasi-mercato” scolastico – la segregazione é molto minore. In Finlandia, la differenza media tra le scuole è solo del 30% dello scarto medio tra gli studenti nelle prove di matematica, PISA.
Se si ponesse fine ai mercati educativi – una carta scolastica efficace, il divieto dell’istruzione privata e l’estensione del tronco comune – allora la politica di discriminazione positiva potrebbe essere considerata positivamente, al fine di compensare le disparità geografiche. Ma allo stato attuale, lungi dal risolvere le cause della disuguaglianza di istruzione, queste politiche sono troppo spesso attuate semplicemente per gestire le ineguaglianze: disinnescare situazioni potenzialmente esplosive per aumentare la sorveglianza “educativa”; e la riduzione degli obiettivi formativi per la trasmissione di competenze di base necessarie per il lavoro flessibile e precario, che sono sempre più spesso destinati a questi ragazzi. A cavallo degli anni ’60 e ’70 è nata l’idea di creare una «discriminazione positiva» in materia d’istruzione. Molti studi, fra questi quelli di Pierre Bourdieu, mettono in evidenza la stretta correlazione tra il rendimento degli studenti e l’origine socio-economica. Nel 1974, in un articolo sul quotidiano “Le Monde”, il segretario generale della CFDT, Edmond Maire sosteneva questo principio originariamente proposto da Bertrand Schwartz: se la scuola deve compensare gli effetti di una società disuguale, bisogna che essa stessa sia disuguale. Si deve pertanto accordare un trattamento scolastico preferenziale a categorie di popolazione svantaggiata o in difficoltà: compensare una discriminazione di fatto per il tramite di disuguaglianze nei mezzi.
La rivendicazione entra poi nel campo politico. Nel 1981, il ministro francese Alain Savary sarà il primo ad applicare questo principio di discriminazione positiva, con una direttiva volta a definire i criteri secondo i quali alcune strutture scolastiche saranno classificate quali “zona di educazione prioritaria” (ZEP), direttiva che pure definisce gli obblighi delle collettività locali nei loro confronti. Nel Belgio francofono ci vorrà un altro decennio per vedere la nascita di scuole “D +” (discriminazione positiva) che beneficiano di ulteriori risorse umane e finanziarie da parte della Comunità francese del Belgio.
Per quanto possa sembrare generosa nelle sue intenzioni, la politica di “discriminazione positiva”, non é immune alle critiche. Ancora una volta, il vero significato delle parole è molto lontano dal valore simbolico ad esse connesse.
In primo luogo, al principio delle ZEP e delle D+, é necessario innanzitutto applicare la critica generalmente valida contro l’idea di “compensare” le disuguaglianze – di reddito o di ricchezza – con una disparità di trattamento in termini di sicurezza sociale o di servizi pubblici.
È giusto prevedere assegni alle famiglie ricche? È giusto attribuire l’indennità di disoccupazione se il coniuge ha un lavoro stabile e pagato? Va bene accordare maggiori risorse finanziare per la gratuicità dell’insegnamento superiore se si considera che chi ne trae profitto sono per la maggior parte bambini provenienti da ambienti benestanti?
A seguire tale ragionamento, il pericolo é quello di smontare a poco a poco i principi di solidarietà che devono fondare la sicurezza sociale e il servizio pubblico. Le disuguaglianze di reddito o di capitale devono essere affrontate con delle politiche fiscali e salariali, non aprendo il vaso di Pandora della previdenza sociale o di servizio pubblico a varie velocità.
Un ragionamento analogo potrebbe essere applicato alla discriminazione positiva quale strumento per risolvere le disuguaglianze cosiddette di “capitale culturale”. La politica ZEP o D+, in nome delle pari opportunità, porta a rinunciare al principio che le scuole dovrebbero garantire il successo scolastico per tutti. L’ideologia della discriminazione positiva, infatti, implica che la responsabilità del fallimento o di abbandono scolastico dei bambini “svantaggiati” venga cercata in quegli stessi ambienti da cui provengono. I fondi supplementari sarebbe quindi destinati a “compensare” le “carenze” della famiglia. Ma questo modo di porre il problema degli insuccessi scolastici è fondamentalmente scorretto. Come indicato da Bernard Charlot, la vera domanda non è: “Perché i figli del popolo non riescono a scuola?” ma piuttosto “perché i ragazzi dei ricchi riescono?”. E di rispondere: perché trovano, al di fuori della scuola, i mezzi per compensare le carenze strutturali, la mancanza di controllo, il deficit di senso che affligge l’intero sistema scolastico. Quando il problema viene posto in questi termini, possiamo concludere che sia l’intero sistema – la sua struttura, la sua organizzazione, i suoi programmi, i suoi metodi, le sue risorse – che bisogna riformare e migliorare. Perché ci sono ancora troppi bambini d’ambiente popolare che soffrono e bocciano in scuole che non sono classificate ZEP o D +.
E perché ci sono anche troppi bambini provenienti da ambienti diversi, borghese o piccolo-borghese, che risentono delle attuali carenze e dell’investimento eccessivo che i loro genitori gli impongono in risposta a queste carenze.
Si può anche dubitare che le politiche di discriminazione affermativa, che si applicano solo alle scuole frequentate da un pubblico estremamente povero, siano effettivamente utili per queste scuole. Classificando uno stabilimento quale ZEP o D+, gli si fornisce certamente un aiuto materiale, ma lo si stigmatizza pure nella designazione di scuola “difficile”. Pertanto, i genitori ben informati, coloro che hanno la possibilità di scegliere un’altra scuola per il loro bambino, coloro che attribuiscono grande importanza a questa scelta – vale a dire, il più spesso i genitori agiati – avranno ancor più desiderio di sfuggire alle scuole ZEP o D+.
Tocchiamo qui la critica più fondamentale contro la discriminazione positiva. Pertanto essa si presenti a noi in nome delle pari opportunità, questa politica non attacca e persino contribuisce a rafforzare quanto, oggi, é uno dei principali fattori strutturali della disuguaglianza, nei sistemi di istruzione dei paesi a capitalismo avanzato: la segregazione sociale tra le scuole. Molti studi internazionali oggi lo dimostrano: in Francia e, cosa più importante, in Belgio, è essenzialmente il “livello medio” delle scuole frequentate, che determina il livello di apprendimento e delle competenze che possono sperare di raggiungere gli studenti. Ma la segregazione è enorme. Se si considera per esempio la valutazione in matematica all’età di 15 anni nei test PISA, si osserva che in Francia, la differenza media tra le scuole raggiunge il 70% dello scarto medio tra studenti. In Belgio si eleva al 81%. Tuttavia, se non ci fosse segregazione, se le strutture fossero in condizioni di parità, non dovrebbe esserci alcuna differenza tra le istituzioni. I tassi osservati mostrano che le differenze tra gli alunni sono legati principalmente alla “scelta” del luogo della scuola. Poiché tale scelta è di per sé fortemente legata all’origine sociale, la segregazione tra “buon” allievo e “meno buon” prende sempre invariabilmente la forma di una segregazione sociale.
La ineguaglianza è strettamente correlata alla libertà di scelta dei genitori. Si osserva d’altronde che nei paesi scandinavi, dove la libertà è più bassa – perché non c’é istruzione privata, perché non vi è alcuna selezione prima dei 16 anni, perché c’è una “carta scolastica” efficace e perché la bassa densità di popolazione interferisce con il “quasi-mercato” scolastico – la segregazione é molto minore. In Finlandia, la differenza media tra le scuole è solo del 30% dello scarto medio tra gli studenti nelle prove di matematica, PISA.
Se si ponesse fine ai mercati educativi – una carta scolastica efficace, il divieto dell’istruzione privata e l’estensione del tronco comune – allora la politica di discriminazione positiva potrebbe essere considerata positivamente, al fine di compensare le disparità geografiche. Ma allo stato attuale, lungi dal risolvere le cause della disuguaglianza di istruzione, queste politiche sono troppo spesso attuate semplicemente per gestire le ineguaglianze: disinnescare situazioni potenzialmente esplosive per aumentare la sorveglianza “educativa”; e la riduzione degli obiettivi formativi per la trasmissione di competenze di base necessarie per il lavoro flessibile e precario, che sono sempre più spesso destinati a questi ragazzi.
Riferimenti:
Pierre Bourdieu et Jean-Claude Passeron, Les héritiers et La reproduction, éditions de Minuit, 1964 et 1970. En France un site national mis en place par le Ministère de l’Education est consacré à l’éducation prioritaire à l’adresse suivante.
Bernard Charlot, Je serai ouvrier comme Papa, alors à quoi ça me sert d’apprendre. Echec scolaire, démarche pédagogique et rapport social au savoir, in Quelles pratiques pour une autre école, Casterman, 1982, p. 136.
Nico Hirtt, L’école de l’inegalité, éditions Labor – Espace de libertés, 2004.