lunedì 27 aprile 2010, Eric Bruggeman
Max Weber (1864-1920) (1), uno dei fondatori della sociologia moderna, soprattutto fu colui che introdusse una sottile distinzione tra potere e autorità. L’autorità è una forma particolare del potere, e per esistere suppone la realizzazione di un’operazione soggettiva di riconoscimento di base. O, per dirla più prosaicamente: noi abbiamo solo l’autorità che gli altri ci vogliono ben riconoscere.
Secondo Weber, questa riconosciuta autorevolezza, e quindi legittima, ha tre possibili fonti: la tradizione, il carisma, la razionalità strumentale.
Questa autorità costituisce una “violenza legittima” se è esercitata dallo Stato per il bene comune. D’altronde, essa sottintende la regolamentazione delle società e il suo scopo è quello di garantirne il corretto funzionamento.
A volte, tuttavia, il riconoscimento delle autorità scombussola questo quadro e si inserisce in un contesto che si differenzia radicalmente dalle sagge considerazioni di Weber.
Per illustrare questo fatto, facciamo riferimento ad una esperienza avviata nei primi anni Sessanta. A quel tempo, Stanley Milgram, uno psicologo americano, insegna psicologia sociale all’Università di Yale. Tra il 1960 e il 1963 dirigerà una ricerca sperimentale sul fenomeno dell’obbedienza cieca all’autorità. L’immagine dell’orrore nazista è ancora vicino (Adolf Eichmann, catturato nel 1960 al suo processo, aperto nel 1961, articola la sua difesa sul “ho obbedito agli ordini.”) Milgram cercherà di valutare, utilizzando un dispositivo scientifico, il livello di obbedienza di persone di fronte una autorità che ritengono legittima. Tenterà così di analizzare il processo di sottomissione (obbedienza), soprattutto quando l’autorità ordina delle azioni che pongono seri problemi di coscienza (nell’esperimento in questione, si tratta d’inviare scariche elettriche crescenti, ad un soggetto posto in situazione “d’apprendimento” (memorizzare delle associazioni di parole), quando risponde scorrettamente alle domande postegli).
Saldo: 62% di coloro che si prestavano a questa esperienza, sono stati in grado di erogare shock elettrici che avrebbero potuto rivelarsi fatali, vale a dire oltre i 460 volt (in realtà, i “torturatori” ignoravano che le scosse elettriche non venivano realmente somministrate e colui che doveva riceverle era un attore che fingeva). Avendo delegato la responsabilità alle autorità, “torturatori” continuavano sull’onda delle scosse, sino a quando la detta autorità non diceva loro di fermarsi.
In questo esperimento, l’Autorità è stata la Scienza. Nel 2010, un produttore francese (Christopher Nick) ha trasportato l’esperimento di Milgram nel mondo della televisione (2), e ha invitato delle persone a partecipare al progetto pilota di un quiz televisivo chiamato “giocando con la morte”. In questa trasmissione, si riproduceva un dispositivo simile a quello di Milgram, ma per una volta situato nel cuore di uno show televisivo; i partecipanti che hanno accettato il dispositivo non guadagnano nulla in cambio.
Risultati: Le persone che sono state in grado d’infliggere scosse violente, che possono causare la morte, costituiscono l’81% del campione. Nota: questa volta, l’autorità non è più la Scienza, ma la stessa TV.
Non c’è bisogno di demonizzare nulla (la tv o i media in generale), ma va notato ancora una volta l’impatto fenomenale di questo tipo di media sulla soggettività.
Ricordiamo che la soggettività non è un’entità isolata, ma una costruzione sociale che si svolge sotto la mozione di concatenamenti collettivi di enunciati. Queste possono avverarsi alienanti e distruttivi dal punto in cui le persone hanno con loro un rapporto di dipendenza e/o sottomissione. Questa relazione alienante sembra funzionar ancor meglio quando ci atteniamo ad una mobilitazione che cortocircuiti il pensiero e la distanza critica (com’è completamente nel caso della televisione trash, dei reality show, o per la maggior parte dei giochi di intrattenimento catodico). Come lo dichiarava un alto funzionario del primo canale privato francese: “Sono qui per vendere del tempo a dei cervelli disponibili”, ricordando in modo inequivocabile che il modello economico della tv è la pubblicità: un altro nome del capitalismo globale. E siccome la pubblicità si propone di cambiare i comportamenti, non c’è da stupirsi che abbia una autorità impressionante sulle menti. Se, come l’illustre “le jeu de la mort” (il gioco della morte), la TV può riuscire a trasformare una maggioranza di individui in boia, a maggior ragione può facilmente indurre comportamenti di consumatori docili.
Anche quando fa del giornalismo professionale e prende “le distanze”, la televisione resta molto eteronoma nei confronti delle leggi del mercato e dell’audimat, come molti studi l’hanno dimostrato (3). Più di venti anni fa, Felix Guattari (1930-1992) sottolineava l’influenza del capitalismo globale sulle soggettività attraverso i dispositivi mediatici, “il capitalismo post-industriale (…) tende sempre più a decentrare le sue strutture di potere di produzione di beni e servizi verso strutture che producono dei segni, della sintassi e della soggettività, attraverso, in particolare, il suo controllo sui media, sulla pubblicità, sui sondaggi, ecc …”. (4) Osservazione più che mai d’attualità.
(1) Weber M., Le savant et le politique, éd.10/18, 2002
(2) http://www.rtbf.be/info/societe/med…
(3) Notamment: Bourdieu P., Sur la télévision, éd. Liber, coll. Raisons d’agir, 1996
(4) Guattari F., Les trois écologies, éd. Galilée, coll. L’espace critique,